sabato 11 agosto 2012

Missione Palestina 2012

Questa missione iniziata 2 anni fa, fino al 2011 è stata una missione di VIP Italia, quest'anno è diventata una missione "autonoma" a causa della tipologia di missione.
Dato che è possibile che chi gli scorsi anni ha partecipato a questa missione, desideri sapere come è proseguita, inseriamo qui di seguito il Diario di missione, gentilmente inviatoci da Pally di VIP Roma.
Buona lettura!


Missione Palestina 2012

Capomissione: Pally


02 luglio 2012 -lunedi

Il 2 luglio è arrivato! Si parte…
Noi (Federica, Marco e Paola) ci incontriamo sulla navetta diretta a  Fiumicino.. sale subito l’energia e siamo già pronti a fare il check  con i passaporti e biglietti in mano, quando c’è una meravigliosa irruzione da parte di alcuni clown di Roma (Amelie, Giògiò, Marandella e Fossetto).
Molto emozionante sentire il calore di casa e l’affetto di chi ha condiviso e chi condivide certe sensazioni della missione. Grazie ragazzi vi portiamo e vi porteremo sempre nel cuore.
Check fatto ora attendiamo l’arrivo di Marzia e Simone…si vocifera che tutti gli aerei siano in ritardo, anche il nostro aereo partirà in ritardo di un’ora…E come un domino prima incontriamo Marzia e poi il trovatello Simone che disperato si perde e ci cerca invano nonostante le nostre indicazioni. Ore 22.00 la squadra è pronta: Simone, Federica, Marco, Marzia e Paola è ora di partire. Ore 04.00 siamo a Ben Gurion: nessuno controllo ci accoglie all’aeroporto.. sono andati tutti a dormire? speriamo.
Facciamo andare avanti Marzia, come da copione , con la nostra bella storiella ben curata e studiata nei minimi particolari. Quest’anno entreremo come animatori pronti a dedicarci ad attività ludiche con i bambini di Neve Shalom (Israele). A Marzia fanno diverse domande e chiedono di far vedere il biglietto di ritorno, comunque passa liscia. Cosi a seguire tutti riescono a strappare 3 mesi di visto…siamo in Israele. Usciamo da Ben Gurion,  ad accompagnarci l’alba.

03 luglio - martedi

Visto l’orario notturno di arrivo, la nostra prima mattinata ci vede riposare.
Poi prime tappe nei posti conosciuti…per Paola e Marzia è davvero un ritorno a casa..in un attimo sembra di essere sempre rimaste qui..odori colori, visi…tutto è così familiare.
Tra cambio dei soldi, carica del telefono e puntata dal nostro amico armeno subito oltre la Damasco Gate nella old city araba, anche Simone, Federica e Marco iniziano ad incontrare le grandi diversità di colori, volti e profumi che questa città offre.
Riconosciamo persone già incontrate..incredibile..ci dona emozione..ci regala la sensazione di essere anche noi un poco “palestinesi”.
Un primo importante ri-incontro avviene con Ali, un leader della rivoluzione armata da tempo memorabile. Un palestinese le cui origini sono africane. Incarcerato per 17 anni, ha il suo “ufficio” all’aperto …ed è li che lo incontriamo e che, riconoscendoci, ci racconta ancora di sé, della situazione attuale, di come gli israeliani stiano pensando di chiudere la porta di Damasco per soffocare così il mercato arabo, di come si sia molto vicini ad una terza intifada.
Ci fa poi da guida per una parte della old city permettendoci così di incontrare dettagli mai colti ed angoli mai visitati…come le vie dove abitano i palestinesi africani…Ali ci porta infatti a casa sua…un gran bel regalo!
Ci colpisce la sua eleganza, persino nel suo avanzare zoppicante, la luminosità dei suoi occhi, la determinazione della sua voce, la storia che trapela da ogni sua espressione, movimento….il riconoscimento di cui gode da tutte le persone che incontriamo…stimato, riconosciuto…
Ci fa poi accompagnare dal  suo “body guard”, così come lo definisce scherzosamente lui, in un locale tipico, non turistico, dove poter gustare un narghilè e del nana shay..il tè alla menta.
Immancabile la visita al muro del Pianto e per i quartieri della Old City.
Nel corso della nostra giornata incontriamo anche Bilal, uno dei nostri amici di Betlemme, e Ahmad, il nostro amico clown di Gerusalemme. Anche lui ci porta a casa sua, trascorriamo del piacevole tempo insieme in giro per la città..a cena…sui tetti di Gerusalemme cantando da Bella Ciao alla nuova bans tormentone dell’estate “soku soku bati bati…”
Lungo il tragitto per tornare in ostello, questa volta in piena Gerusalemme Ovest, parte ebraica, facciamo una breve sosta all’esterno dell’Uganda, il noto locale dove si dice nascono idee rivoluzionarie grazie al tipo di uomini e donne che ne sono attratti.
Lungo la strada decidiamo di fermarci ad ascoltare dei ragazzi israeliani in tenuta religiosa (kippa, camicia bianca e pantaloni neri…senza giacca stavolta) che tra una birra e l’altra stanno improvvisando con una chitarra acustica.
Nel frattempo ci ha veramente colpiti l’atteggiamento di un giovane ragazzo vestito allo stesso modo con in più la giacca nera il quale, passando davanti a loro, è rimasto letteralmente pietrificato nell’osservarli incerto se proseguire o concretizzare il suo silenzio in un modo per farli sospendere.
E’ stato interessante osservare come due persone, ai nostri occhi “uguali” potessero essere così distanti..
Dal suo sguardo e dal suo corpo emanava incredulità, perplessità, stupore..siamo stati immersi in un tempo dilatato in cui ci si riconosceva e ignorava nello stesso tempo, in cui si fondevano e pure si opponevano silenzio e musica, serietà e divertimento, sudore freddo e alcol etilitico…
Tempo di riposare…è strano pensare che siamo qui solo da un giorno… gli incontri sono già stati molti, qui tutto è intenso..il nostro modo di respirare questa terra, il modo in cui ci relazioniamo e i racconti che ci vengono donati ci fa sembrare di essere qui da tempo..tanto tempo..e le riflessioni che già emergono sono tante.

4 luglio- mercoledi

Questa mattina Paola e Marco restano nella Gerusalemme vecchia. Il programma è andare a cercare materiale per le attività, visitare ancora alcuni luoghi della città vecchia ed avere modo di respirare ancora un po’ l’atmosfera magica di questa città. Iniziamo ad addentrarci nelle strade più tranquille del quartiere cristiano per passare nei colori e negli odori del quartiere arabo, la prima tappa è la spianata delle moschee. L’accesso è molto controllato dai militari, la spianata si trova esattamente alle spalle del muro del pianto, i due luoghi di culto più importanti per l’ebraismo e l’islam sono esattamente attaccati. Entrando l’emozione è forte, si oltrepassa una porta che si affaccia nel profondo del medio oriente. Il panorama è da lasciare senza fiato, il verde degli ulivi si stacca sul bianco delle pietre e delle strade polverose, rimaniamo colpiti dal fiume di persone e bambini che popolano  il luogo. Ritorniamo a fare acquisti nella Old City e lungo le strade incontriamo 2 soldatesse, senza fucile che ci fermano e ci chiedono informazioni. “Proprio loro” ci chiedono se la strada è giusta per il Muro. Per un attimo sembra che i ruoli siano cambiati: c’è chi è del posto e chiede perché non sa dove andare e noi stranieri che diamo indicazioni pur non avendo delle vere radici.Ci assalgono varie domande e perplessità…l’umanità di vedere 2 soldatesse con le loro uniformi, disarmate , quasi impaurite a chiedere a dei turisti info per ritrovare la giusta strada.
Strano essere per la prima volta dall’altra parte…ad accogliere quella diversità e fragilità che tanto colpisce. Nel frattempo Marzia, Federica e Simone vanno a visitare il Vat Vashen, il museo dell’Olocausto che ricostruisce la storia del razzismo e della deportazione degli ebrei.
Quattro ore non ci sono sufficienti per dedicarci ad una visita completa..terminata la vista della parte “al chiuso” torniamo verso Jaffa, dove abbiamo appuntamento con i nostri amici.
Stiamo ancora elaborando tutto quanto abbiamo visto e sentito al museo….siamo stati bombardati da video, foto, rumori di quegli anni bui.
Ognuno di noi prova emozioni e sensazioni diverse…rabbia, disgusto, stupore, increduìlità, vergogna, compassione, tristezza…pensieri…pensieri su come tutto si ripete...su come l’uomo sappia così alternare la sue luci come le sue ombre…su quanto l’uomo possa essere responsabile della disumanizzazione di un suo fratello uomo, di come oggetti che sono stati subiti e vissuti come mezzi per far perdere la propria identità possano diventare oggetti di  affermazione della propria identità, di come violenze subite possano essere perpetrate nella stessa modalità con gli stessi mezzi…dove si trova questo confine?dove diventa lecito? Cosa rende lecito? Come e perché nasce la cecità nel riconoscere questo evidente e spaventoso gioco di specchi  dove da vittima si diventa carnefici dove si toglie il valore dell’uomo all’altro utilizzando modalità così conosciute e famigliari alla propria persona, alla propria anima?
domande….
Ogni volta che si torna qui le domande aumentano sempre di più…i confini si assottigliano fino a confondersi…e dietro resta l’uomo, resta il scegliere di voler restare radicati, centrati, di voler provare ad accoglierci nella nostra interezza, nel riconoscere ed accettare che ognuna di queste sfaccettature che incontriamo appartiene anche ad ognuno di noi…qualcuno direbbe proviamo a restare umani.
e’ tempo di andare a Betlemme, tappa al centro del Campo Aida con il nostro amico Bilal, visita a casa di sua mamma e di un’altra famiglia del campo prima di andare tutti a casa di Bilal..passando dal check point che la separa da Betlemme in quanto risulta in territorio israeliano poiché “oltre il muro”.

05 luglio- giovedi
Sveglia all’alba a casa di Bilal, con musiche arabe di sottofondo e immagini di un pestaggio a Hebron, protagonisti un bambino e un soldato.
Negli occhi ancora le immagini, i suoni e i profumi. Ci vestiamo e prepariamo e arriviamo al campo profughi di Aida dove già tutto il gruppo ci sta aspettando (se le donne palestinesi dicono di trovarsi alle ore 9.00, BISOGNA ESSERE LI’ alle 9.00!!!).
Attraversiamo a piedi il chek point, un muro alto, spesso, massiccio con due strisce di cemento circondato da sbarre di ferro: un corridoio per l’andata e l’altro per il ritorno che i palestinesi devono attraversare ogni giorno per andare a lavorare. Tra tornelli e gabbiotti arriviamo.
Dopo una breve introduzione arrivano i bambini e comincia tutto in un clima di incertezza generale.  Grande successo del tormentone dell’estate ormai sulla bocca di tutti “Soku Soku Bati Bati Soku Soku Mira Mira” , poca incertezza nel gruppo che unito lavora e va, eccome se va!!..
Nel pomeriggio scopriamo che è arrivato il momento della vera riunione: fior fiore di interpreti creano solo disagio ma bastano poche parole con la persona giusta e già alcuni dubbi si dipanano. Alcuni perché il tutto rimarrà MOOLTO fumoso.
Finita la riunione facciamo tappa a Betlemme dove riusciamo coraggiosamente e stoicamente a perderci, meta la basilica della Natività. Dopo una camminata a vuoto, una contrattazione selvaggia, una corsa in taxi e una lieve salita, giungiamo alla basilica. Lì Marzia e Federica sono vittime “dell’avidità” di 2 monaci ortodossi che spengono e gettano in un sacco le candele appena accese.
Non riuscendo a comprenderne il perché e non condividendo l’atteggiamento veramente poco rispettoso del luogo, delle emozioni e dei pensieri collegati alle candele e alla non sacralità con cui queste vengono spente, Marzia resta ad osservare la propria candela e quando il monaco si avvicina per spegnerla e buttarla, lei gliela chiede dicendo che quella è sua e se la porterà a casa. Gentilmente chiede anche spiegazione ma la risposta è uno sguardo infastidito e minaccioso, una ripetizione di “finisch,finisch. Go.”
Risedutesi, incredule di tale atteggiamento in un luogo di questo tipo, vengono intimate a raggiungere l’uscita in fretta.
Alla sera siamo in centro a Betlemme, dopo un giro per la città ci fermiamo in piazza dove vi è una festa in memoria del 1948, anno della Naqba cioè l’esodo palestinese da parte degli israeliani, e vi sono esibizioni di dabqa (ballo tradizionale) e altro.
Con stupore incontriamo un ragazzo americano che era in stanza con noi a Gerusalemme e con il quale, reciprocamente, ci siamo detti che saremmo andati a Tel Aviv e fatto vacanze di mare in Israele….ridiamo insieme dicendoci “eh si, quando si  è in giro non ci si puo’ fidare..”. E’ così, la bugia qui è d’obbligo.
Al centro nel Campo oggi sono arrivati altri italiani. Siamo in circa 15 persone in uno spazio ristretto e senza acqua.
;0)


06 luglio- venerdi
Venerdì, giorno di festa in Palestina e giorno in cui ci sono tante manifestazioni al muro.
Oggi ci andiamo anche noi.
Non senza dubbi.
Sappiamo che le manifestazioni non sempre sono “pacifiche”, non comprendiamo bene le intenzioni degli italiani che sono qui..anzi in realtà proprio perché in qualche momento abbiamo sentito frasi che non sono in linea con il nostro modo di vivere la manifestazione, facciamo presente ancora una volta a Bilal come la pensiamo, che non vogliamo trovarci in mezzo a lanci di pietre e a cariche poiché la manifestazione violenta non è il nostro modo di modo di fare resistenza.
Sapendo inoltre che le manifestazioni al muro sono uno dei momenti in cui gli israeliani riprendono  le persone al fine di poterle identificare e poterne così impedire una nuova entrata, facciamo anche presente che saremo coperti e non staremo in prima linea.
Noi qui vogliamo tornarci.
Prima della manifestazione facciamo tappa da una famiglia del villaggio dove questa si svolge, Masara, e qui veniamo accolti dal racconto di un palestinese e di sua mamma che con la forza e l’essenzialità che solo qui si trovano,  ci raccontano della loro storia, della storia di occupazione e di violenza fisica e psicologica che ogni palestinese subisce continuamente, ci raccontano della loro resistenza quotidiana, della loro scelta di resistenza non violenta, di come all’inizio questa scelta non fosse ben accolta da tanti palestinesi stessi e di come, nel tempo, questa si dimostra una scelta vincente, una scelta che spiazza colui che si ha di fronte. Ci colpisce ad esempio quando questo signore dice “e noi possiamo vedere tutto questo ogni venerdì nelle facce dei soldati davanti a quali manifestiamo”.
Noi ci sentiamo a casa, sentiamo in noi la grandiosità di questo pensiero, è come sentire Hafez che ben conosciamo, leader della resistenza non violenta in Tuwani e del comitato delle South Hebron Hills.
Ci sentiamo anche rassicurati.
Rimaniamo per l’ennesima volta increduli, colpiti quando sentiamo un ragazzo italiano che dice “se sapevo che non si potevano neanche tirare le pietre allora non venivo”.
Tempo di manifestazione…tempo di fine manifestazione, Bilal si avvicina a noi e ci dice di allontanarci subito perché sta per succedere un casino.
Ci siamo protetti e incazzati/e nello stesso tempo.
Da lì a poco alcune pietre volano.
Si corre.
Noi siamo abbastanza distanti, non c’è pericolo.
Ma per gli altri? Per gli israeliani attivisti? Per i nostri amici palestinesi? Per la grande madre che prima ci aveva chiesto di portare testimonianza di quanto vediamo, di quanto sia importante per loro che degli internazionali vedano e informino e manifestino in pace con loro…e poi…
Condivideremo a lungo alla sera di quanto questa situazione  ci abbia smosso.
Qui è così, tutto cambia in un attimo, nulla è programmabile…
La manifestazione, l’incontro con questa famiglia, la difficoltà nel gestire spazio e momenti con persone che avvertiamo così tanto diverse, frasi e bestemmie e canti e atteggiamenti che ci disturbano e creano disagio, ci stanno dando una grande opportunità di crescita.
A ognuno di noi stanno emergendo cose diverse. Si sa, il viaggio in Palestina è un acceleratore di crescita personale, almeno per come noi lo abbiamo sempre vissuto e, sempre più, lo viviamo.
Ci confrontiamo tra noi in merito alle emozioni opposte che viviamo, al nostro ego giudicante, a quanto e a cosa ci stanno facendo da specchio le ombre esterne, i conflitti che osserviamo, le “offese” che incontriamo, la rabbia che sentiamo, la difficoltà nell’accogliere un diverso punto di vista.
Riflettiamo pure su quanto oggi possiamo sentire in modo diverso il fatto che in diversi luoghi i palestinesi non vogliono gli internazionali, perché possono creare caos, perché poi loro se ne vanno e i palestinesi restano e su di loro ricadono gli effetti di eventuali prese di posizioni e comportamenti.
Condividiamo anche sulle emozioni, pensieri che ognuno di noi ha vissuto e prova nei confronti dei soldati. Comprensione e compassione…abbiamo provato ad osservarli durante la manifestazione..vittime anche loro, scelgono di essere li certo, ma scelgono all’interno di un sistema che rende davvero difficile non seguire quanto lo stato chiede, passa e impone.
Sono ragazzi giovani, in servizio militare che portano violenza e che subiscono violenza a loro volta, in una catena di rabbia e paura di cui altro non sono che anelli..umani!

Ci prendiamo del tempo per noi, cena a Betlemme, prenotazione dell’ostello per due notti della prossima settimana così da riposarci e lavarci prima di andare a fare un servizio clown all’ospedale di Betlemme e  di andare a Tuwani.

Durante la cena, in un ennesimo confronto, ci viene un’idea: chiedere a Bilal se sarà possibile andare alla manifestazione venerdi prossimo e fare uno spettacolo davanti ai soldati come momento di manifestazione. Inshallah. Si vedrà.

Di oggi ci piace ancora ricordare due momenti.
Mentre passavamo al check point 300 di Betlemme e stavamo usando le bandiere, siamo stati accolti e fermati dal sorriso di due giovani ragazzi di Hebron, ai quali se ne è presto aggiunto un terzo, e lì davanti ai due tornelli e ad una soldatessa abbiamo giocolato e fatto provare loro kiwido,bandiere, palline e contact.
I palestinesi che tornano a casa sorridono nel vedere questa scena.
..incredibile… come le cose nascono così…in luoghi così forti e totalmente imprevedibili.

Alla sera un ulteriore spazio per noi, un cerchio di meditazione davanti alla chiesa della Natività. Momento sacro, questo resta un intimo spazio nostro.


07 luglio - sabato
E cosi inizia il Summer Camp al Campo estivo di  Aida. Già alle 8.30 i bambini si presentano al Centro. Contarli è ancora inutile, visto che per tutto il giorno ci sarà un andirivieni di teppistelli .., per il numero definitivo bisognerà aspettare almeno il giorno dopo…si dice che dovremo gestire 4 gruppi, ma, Inshallah, faremo come verrà, è inutile programmare. Noi ci dedichiamo alla costruzione di strumenti musicali con i bimbi di 8-10 anni e le barchette con i bambini di 6-8 anni. Occupiamo la sala interna, mentre l’altra stanza sarà gestita dall’altro gruppo di italiani Sono tutti aperti e ben vogliosi di imparare. Ci danno una mano anche le educatrici del centro con le traduzioni. E’ molto emozionante vedere costruire sonagli, maracas e barchette. Notiamo subito che c’è un po’ di caos  intorno: i ragazzi italiani ci continuano a chiedere del materiale che tra l’altro stiamo utilizzando e non sembrano essere in grado di gestire ed organizzare le loro attività con i bambini. Arriva la pausa -  una pausa infinita che doveva essere solo di mezz’ora e che invece è durata un’ora - tutti fuori con i bambini nel giardino e noi e gli italiani che ci ritroviamo tutti insieme a dover pensare a come a tenere a bada le bestioline .
Si incomincia con i bans classici : O alele , Il ragno Elvira, ma l’attenzione cala subito. Vediamo che dopo 2 ore di attività abbiamo perso il nostro piglio sui piccoli bipedi. Bambini spuntavano da ogni angolo, i gruppi ormai non esistevano più e dopo poco più di mezzora di ritmi e creazioni strumentali, palloni, cerchi e i continui arrivi hanno reso vano ogni tentativo di contenimento. Prima sconfitta consapevole, era un caos più grande di noi.


Il pranzo è stato il primo effettivo momento di apertura, un primordiale tentativo di comprensione, mettendo da parte le pietre, i cori politici e le 2 docce al giorno.
Eh si, ora abbiamo l’acqua, ne è stata comprata una cisterna dal Centro. L’acqua corrente qui arriva un giorno su quindici e, a volte, in estate si sta anche due, tre mesi senza. La quantità di acqua che Israele fornisce ai Territori Palestinesi è limitata e viene distribuita in modo alternato ad alcuni posti piuttosto che ad altri.
E’ evidente quindi di quanto sia importante non sprecarla e utilizzarla con buon senso, l’acquisto è costoso. Noi, come sempre, scegliamo per rispetto di non lavarci…qui come in altri luoghi della Palestina. Le nostre docce avvengono con le salviette umidificate e ci “laviamo” i capelli con il talco. Facciamo fatica ad osservare in questo contesto anche questa differenza..alcuni italiani che si fanno due docce al giorno , che si lavano i capelli e che tengono l’acqua aperta per quindici minuti.
Tornando al nostro incontro, ecco avviene così . Sono uomini e donne che come noi hanno deciso di incontrare una realtà nuova anche se con modalità diverse  dalle nostre che però non possiamo definire sbagliate. Il pomeriggio ci vede nuovamente divisi, noi 5 (meravigliosi ovviamente) rimaniamo al campo. Possiamo così confrontarci su come affrontare la riunione della sera.
Infatti Bilal, nelle vesti di filosofo durante una breve conversazione, ci ha anticipato che stasera ci sarà un incontro con tutti noi e gli educatori del centro sia per motivi organizzativi sia per l’insostenibile distanza tra i gruppi, un’incolmabile diversità resa tale dalle differenti motivazioni che ci hanno spinto ad Esserci.
E in questo pomeriggio nasce un progetto, la realizzazione di un sogno per qualcuno e la manifestazione fisica di un progetto per altri: “CIP metterà la sua impronta sul muro”.
Pennello, colore bianco, una bozza, manca soltanto identificare un pezzetto di muro.
E’ un abitante del campo di Aida a mostrarci la strada. Siamo accompagnati dai numerosi incontri di Marco (che si ferma a parlare con tutti) e dall’abbaiare dei cani ed infine eccolo là il nostro ritaglio di muro.
Paola, come posseduta dall’entusiasmo e dalla sua macchina fotografica, improvvisa incitazioni e scatti d’autore.
Al ritorno, carichissimi, troviamo gli ultimi preparativi di quella che scopriremo essere una festa d’addio al celibato, giusto il tempo di barricarsi nel centro e musiche e balli iniziano a colorare la serata.
20.40 comincia la riunione. Non scenderemo nel dettaglio, non eravamo i segretari ma quel che si può dire è che l’argomento è stato affrontato faccia a faccia senza nascondersi niente, appianando le differenze ideologiche e filosofiche fino a trovare la comune priorità, i bambini. Questo ci obbligherà a dividerci, l’idea non ci piace molto ma alla fine un compromesso si trova e questo sembra “calmare” un po’ l’atmosfera.
Cena comunitaria con conoscenza reciproca che ci vede partecipi di numerose discussioni: chi parla di precariato, sottolineandone anche gli aspetti positivi (Pally dice che le ha dato la possibilità di essere poliedrica e di apprezzarne le sfaccettature) e di Mc Donald e chi, invece, ha modo di conoscere da vicino la quotidianità qui al campo di Aida. Marzia e Federica, infatti, chiacchierano con Ibrahim, un ragazzo palestinese di diciannove anni che piano piano si lascia scoprire raccontandoci la sua storia. Ci dice che le giornate qui al campo scorrono tutte uguali, senza nulla da fare, senza modo di staccare la testa, come un tarlo che rosicchia e consuma continuamente. I segni dell’occupazione e dell’oppressione israeliana si vedono ovunque: il miraggio della libertà, l’acqua che manca o è razionata, il lavoro che non c’è, la povertà, a volte estrema, e il continuo controllo degli israeliani, il futuro già precario. Ibrahim ci racconta che i soldati israeliani, nonostante il campo di Aida sia in zona A e quindi sotto il controllo dell’autorità palestinese, entrano di notte, di casa in casa per cercare alcuni palestinesi che, senza nessun motivo apparente, sono condannati alla prigione: una cella di un metro per un metro, con un litro d’acqua a settimana e il cibo, come le sigarette ogni due giorni, in isolamento completo. Questo anche per due, tre mesi o più. Poi puo’ seguire un periodo di carcerazione in celle più grandi con altri palestinesi.
Ci dice che molti di questi prigionieri ritornano a casa dopo due o tre anni, ma che altri, purtroppo sono morti in carcere, non riuscendo a superare le difficili condizioni della prigionia. Ci confida Ibrahim che non è libero di girare per il campo, soprattutto di notte, perché i soldati potrebbero catturarlo da un momento all’altro e questa possibilità che aleggia su di lui, così come su tutti, lo fa arrabbiare, togliendogli la felicità.
Quando gli chiediamo i suoi sogni per il futuro, Ibrahim con la luce negli occhi, ci dice che vorrebbe viaggiare in Europa, andare all’università e trovare un lavoro, allontanandosi per sempre da questa terra di contraddizioni…..Inshallah. 

08 luglio - domenica
Come da programma di ieri, i bambini vengono divisi in quattro gruppi.
Paola, Federica e Marzia restano insieme e si dedicano a dei laboratori di creatività mentre Marco e Simone, insieme, propongono attività di clownerie e giochi con strumenti di giocoleria.
Con entrambi i  gruppi vi sono alcuni degli altri italiani, gli altri due gruppi sono gestiti in toto dagli altri.
Tutto scorre bene, con buona collaborazione, più semplice per le ragazze, alcune difficoltà in più per i ragazzi. Tutti siamo stanchi e soddisfatti.
Al pomeriggio, condotti da Khaled, facciamo un giro per il campo di Aida con tanto di spiegazione su quando è nato (nel 1948 quando ci fu la Naqba: occupazione ed esilio dei villaggi palestinesi da parte degli israeliani dopo la nascita dello stato israeliano con Ben Gurion), come si è sviluppato e quali sono i problemi principali.
Abbiamo indicato tutte queste informazioni nel diario dell’estate 2011, chi fosse interessato puo’ chiedercele.
Qui vogliamo sottolineare alcune cose che ci sono state raccontate in questa giornata e che riteniamo tra le più importanti.
Al campo di Aida, così come in realtà negli altri due campi di Betlemme, uno dei più grandi problemi è l’acqua, così come già scritto. Un altro problema riguarda la corrente elettrica. Qui nulla è a norma, i vicini si aiutano l’uno con l’altro in base alle proprie possibilità. Ci sono così fili che passano da tetto in tetto per allacciarsi in casa di qualcun altro. Questo comporta che in inverno l’accensione contemporanea di stufette o altro fa saltare la corrente in svariate case.
Altro problema è l’istruzione. Qui ad Aida Camp c’è una scuola (fino alle nostre medie) alla quale vengono bambini anche degli altri campi. Le classi sono molto numerose, dai 35 ai 45 alunni, le lezioni durano 40 minuti. Come dice Khaled “se ogni alunno fa una domanda di un minuto capite bene che è già belle che finita l’ora”. Oltre a tutto questo il materiale scolastico è scarso.
Il giro è proseguito lungo il perimetro del campo, delimitato dal muro. I ragazzi italiani dell’altro gruppo si sono cimentati nel lancio delle pietre, e mentre osservavamo un po’ perplessi e in disparte la scena, un particolare è saltato ai nostri occhi: al di la del muro, proprio davanti a noi, si trova la casa di Bilal. La casa del nostro amico è stata tagliata fuori dal resto del campo: mezz’ora di cammino a piedi per poter raggiungere la casa di un amico, di un vicino, o la propria famiglia, costretto ad attraversare un checkpoint quando prima bastava attraversare una strada. Proviamo ad immaginare quanto tutto questo possa significare nella vita, nella quotidianità di tutte quelle persone che si trovano a vivere il muro in questo modo.
Colpiti alla sera da un cartello che viene appeso al centro dove stiamo sul quale vi è scritto “non si puo’ uscire né entrare dal campo dopo le ore 22” ..un coprifuoco insomma..chiediamo informazioni a Bilal.
Con fatica riusciamo ad ottenere delle risposte serie e a condividere momenti di profonda condivisione.
Da dopo la morte di Giuliano e di Vittorio Arrigoni la situazione in tutta la Palestina e anche al campo è cambiata. E’ bene non fidarsi di nessuno, o quasi. Infatti sia Vittorio che Giuliano sono statti venduti agi israeliani da dei palestinesi.
Per chi conosce un po’ questa terra e le sue condizioni di vita questa cosa non sorprende particolarmente.
Anche qui al campo ci sono famiglie “collaboratrici”, cioè che passano informazioni agli israeliani.
Inoltre sebbene il campo sia molto molto unito presenta delle “faide” interne.
L’unione si presenta nella rete di solidarietà e di aiuti reciproci, nella grande compattezza e partecipazione di chi fa resistenza.
Ci viene detto che più volte durante l’Intifada gli israeliani hanno circondato e attaccato il campo, anche dall’alto  e anche occupando degli edifici limitrofi dai quali sparavano.
La gente del campo è sempre riuscita ad opporre una resistenza tale che mai sono riusciti ad occuparlo.
La stessa solidarietà vi è tra i vari campi.
Uno dei campi di Betlemme (DEISHA) in passato ha avuto dei problemi con cristiani e siriani e ha chiesto aiuto ad Aida. Tutti, nessuno escluso sono andati ad aiutare quelli dell’altro campo, ovviamente avendo la meglio.
Qui al campo la gente “preferisce” che chi entra sia accompagnato da qualcuno del posto, diversamente credono e temono che si possa trattare di israeliani o di gente che con loro collabora.
Questo è uno dei motivi per i quali quasi sempre si va in giro con qualcuno del campo e, comunque, dopo una certa ora assolutamente non si va in giro da soli.
Se si viene scambiati per estranei e potenziali pericolosi si puo’ anche essere uccisi.
Inoltre di notte,oltre ai soldati, possono entrare palestinesi di altre zone per fare casino, meglio evitare di essere in giro.
La gente del campo si conosce tutta, riconosce pertanto molto bene un viso estraneo e ed eventuali intenzioni.
Realizziamo così il senso delle telefonate passate di Bilal.
La sera in cui siamo usciti per conto nostro e siamo andati a prenderci un poco di tempo per noi al cimitero (senza dire dove eravamo a chi era rimasto al centro), Bilal ci aveva chiamato preoccupato dicendo che non sapeva nulla e di tornare il prima possibile.
E ancora una sera che eravamo a cena per conto nostro a Betlemme ci aveva telefonato e detto di prendere un taxi e non tornare tardi. Nel corso della serata lo abbiamo sentito più volte. Siamo tornati a piedi. Quando siamo arrivati all’ingresso del campo vi erano alcuni ragazzi giovani che appena ci hanno visto si sono avvicinati con fare amichevole, ci hanno chiesto dove andavamo e ci hanno accompagnati fino al centro dove stiamo. Scherzando abbiamo detto loro che erano le nostre body guard… beh…era vero!

Scene di vita vissuta
Oggi Simone ha fatto fare la capriola ad un bambino, quelle dove il bambino si mette a testa in giù e ti dà le mani e tu con un colpo lo fai girare. Già, peccato che abbia detto al bambino di mettere le gambe verso di lui (l’opposto di come dovrebbe essere) e quando lo ha sollevato con un colpo, i piedi del bambino sono finiti dritti e filati tra le gambe di Simone…..

Stavamo camminando vicino al muro e svariati italiani, oltre ai palestinesi, hanno iniziato a tirare le pietre al di là di questo e tra le varie frasi “dai su facciamo vedere che anche gli italiani ci sanno fare e che non siamo da meno”
E ancora, nel momento in cui una signora cinquantenne normalmente tranquilla, ha voluto anche lei tirare una pietra, ne ha presa una e un ragazzo italiano le ha detto con fare esperto “no, no, quella che hai preso è troppo pesante. Prendi quest’altra”
E la signora poi chiedeva informazioni su come meglio fare il lancio per tirarla al di là del muro.
Osserviamo con piacere che Bilal non ha tirato nessuna pietra.

Altra scena di vita vissuta, sempre passeggiata lungo il muro, una  delle ragazze italiane, da tutti acclamata come “Islamabad, la capa degli ultrà” alza la voce, cambia il tono per ben sottolineare quello che sta dicendo e, prendendo chiaramente in giro Paola per quanto avevano condiviso la sera prima a cena dice “si, perché io sono precaria..ma sono contenta..perchè l’essere precaria mi ha reso poliedrica”. Noi 4 scoppiamo a ridere, Simone cade a terra sulle ginocchia esterrefatto e dice “E Simone cadde per la prima volta”

09 luglio-lunedì
Al centro oggi è in programma la giornata culturale palestinese, l’organizzatrice non chiarisce i nostri dubbi riguardo al cosa fare rispondendo semplicemente “free activity”, non ci viene detto altro. Assistiamo immobili ai bans (palestinesi) e alla dabka (ballo popolare tipico) poi usciamo e cominciamo a creare il nostro gioco. Una lumaca disegnata con gessetti su strada con all’interno del guscio un percorso tipo gioco dell’oca. Beh ovviamente è venuto bellissimo e ovviamente abbiamo deciso di farci immediatamente una partita (che sempre ovviamente ha vinto Simone). Al nostro rientro troviamo un caldo asfissiante, al centro non si respirava, avevano acceso un forno e un altro affare tipico, simile a un barbecue con sopra una padella convessa, per fare una specie di piada (mentre sto scrivendo tutto questo Marzia Federica e Marco rompono un po’ le balle).
Paola e Marzia hanno cominciato a produrre decorazioni con cannucce e fiori di carta, Federica faceva colane con gli stessi materiali e Simone e Marco avevano allestito un mini gruppo di giovani e motivati giocolieri!(cosa più unica che rara)
Dopo un pranzo superlativo (pizza, pane palestinese con zatar e, yogurt, verdure varie cotte e crude) e una pennichella notiamo che i bimbi del campo stanno usando la nostra lumaca coloratissima per giocare, questo ci riempie per un po’.
Simone, Paola e Federica tornano al muro e Federica inizia a tracciare il logo CIP: una colomba con il naso rosso all’interno di una nuvola.
Torniamo indietro a chiamare i nostri compagni e tutti e cinque ci dirigiamo al muro con 4 colori, 2 pennelli, musica e coca cola (ebbene sì abbiamo ceduto). Ogni pennellata aveva un suo momento di riflessione, racchiudeva il nostro messaggio, la concentrazione era alle stelle. Poi il buio è arrivato  farci compagnia troppo presto e così siamo ritornati indietro.
Ceniamo soli, i nostri compagni ancora non si vedono.
Siamo ancora pieni per la giornata appena trascorsa, attendiamo il sorgere del sole per poter completare il nostro murales.
Verso le undici rientra l’altro gruppo, Bilal era reduce da una brutta litigata di cui abbiamo capito poco e niente. Sarà una telefonata su skype con Giulia alias Mezze Punte a distendere un po’ la situazione. Simone e Marco giocano con un alce e un birillo a calci di rigore. Vince il birillo! BUONANOTTE

10 luglio-martedì
Questa mattina finalmente non veniamo svegliati dall’Inno dello sconvolto che i nostri compagni intonano ogni mattina con tanto di battito su coperchi “noi ci svegliamo e dalla mattina il nostro corpo sente già l’anfetamina…non sono stato mai stato così sconvolto, evviva l’erba che ricopre tutto il mondo, il mondo è libero, pieno di pakistano  e chi non fuma è un israeliano…..”
Con i bambini noi ragazze ci dedichiamo  ad un lavoro sul ritmo, con insegnamenti base di pizzica, yoga della risata e momenti di coccole e rilassamento con il materasso ad acqua.
Notiamo la difficoltà di tanti bambini ad abbandonarsi e la rigidità che hanno sia nelle gambe sia ad altezza nuca.
I ragazzi si dedicano a giochi con il paracadute, a volte non è facile spiegare gli esercizi e tenere i bambini concentrati, ma facciamo del nostro meglio. Un esercizio di fiducia in cui i bambini hanno attraversato una piccola trave di legno bendati, e sostenuti da noi, ci ha regalato dei momenti intensi, tra noi e loro c’è stato un contatto molto vero ed è stato bello il modo in cui si sono affidati a noi.
Siamo entrambi in luoghi caldissimi: noi in una sala all’interno dove le donne cucinano con un viavai di bambini sebbene cerchiamo di tenere la porta chiusa per evitare continue distrazioni; i ragazzi sul tetto/terrazzo con un telo che crea un quadrato di ombra.
Ci fa piacere vedere la sorella di Bilal e le altre donne del centro che mentre cucinano si fanno coinvolgere in alcune nostre attività.
E’ inevitabile per noi pensare che il progetto su Betlemme è nato come progetto di circo sociale rivolto agli educatori. Una parte di lavoro sulla persona (contatto con sé e con il proprio valore, autostima, cooperazione, affettività…) con giochi cooperativi, movimento corporeo e altro e una parte di lavoro circense (acrobatica, giocoleria, clownerie) sia per un lavoro sulla persona sia per avere basi tecniche (per sé e da trasmettere).
Nonostante questi fossero gli accordi sia prima del nostro arrivo sia una volta arrivati, ci dispiace dover prendere nota del fatto che nulla di tutto questo è stato fatto.
Alla prima occasione ne parliamo con Bilal il quale ci conferma che tutti loro sono molto interessati solo che durante il Summer Camp sono tutti molto stanchi, ci dice che vuole organizzarlo per un periodo più tranquillo. Inshallah!
Al pomeriggio possiamo realizzare un nostro desiderio: prenderci cura di Bilal.
Su nostra richiesta, non senza titubanza, si affida a noi e alle nostre mani. Dapprima parla e ride pur mantenendo gli occhi chiusi, a volte strizzandoli, con fatica a permettere a se stesso di abbandonarsi e di fidarsi.
Poco per volta si lascia sempre più andare, il suo respiro cambia e le mani di tutti noi 5 gli donano amore, tranquillità attraverso un massaggio del corpo fisico ed energetico.
Ci troviamo a volte tutti con le mani posate in diverse parti del suo corpo, con gli occhi chiusi che gli doniamo energia.
Bilal si permette a tal punto di godersi la situazione che si toglie le scarpe e ci chiede di proseguire..si gira di schiena e nuovamente è nelle nostre mani.
Siamo tutti molto presenti, emozionati e grati.

La giornata di oggi ci vede anche terminare il nostro murales…è bellissimo!!!
Mentre lo stiamo ultimando è arrivata la polizia palestinese e, dopo un attimo di batticuore, gli abbiamo spiegato cosa stavamo disegnando e, con Marco alla chitarra, abbiamo cantato insieme. “somewhere over the rainbow”.

Alla sera ci aspetta dell’ottima pasta al pomodoro cucinata dai nostri compagni italiani!

11 luglio-mercoledì
Notte insonne per tutti noi, fa veramente tanto caldo e ogni notte dormiamo sempre meno.
Ci svegliamo alle 5 per andare al check point di Betlemme e poter fare la fila con i palestinesi che, ogni mattina, per andare a lavorare a Gerusalemme si mettono in coda dalle tre/quattro di notte e a volte dormono proprio li, in coda, su strada per poter passare appena apre il check point ed arrivare così in tempo al lavoro.
Normalmente apre alle sei, ma stamattina, con nostra sorpresa, ha aperto prima e quindi non troviamo coda.
Scegliamo quindi di non attraversarlo neanche noi, non ha ovviamente senso farlo ora.
Probabilmente ha aperto prima, ci dice Bilal, perché stanno facendo dei lavori per creare ordine in vista del maggiore afflusso di persone in vista del Ramadam…gli israeliani temono caos..così dicono.

La mattinata con i bambini è per tutti noi più difficile del solito, oggi sono molto agitati.
Ultimo pranzo al centro Amal di Aida Camp, buonissimo come sempre, cucinato con amore dalle donne: riso con verdure e pollo con yogurt a parte.
Subito dopo con Bilial andiamo a vedere il nostro murales e gli chiediamo di proteggerlo. Prendiamo le foto di rito e, ovviamente, nel frattempo arriva la polizia palestinese alla quale chiediamo di farci una foto tutti insieme.

E poi è arrivato il momento dei saluti. Se da una parte sentiamo il bisogno di staccare e siamo felici di andare in ostello, di andare in un bagno pulito, di lavarci e di dormire in un letto, ci dispiace congedarci da questo luogo e da queste persone.
Dai loro occhi e dalle loro parole ci arriva il loro dispiacere, si percepiscono in modo forte i legami che si sono creati, forse non ce ne eravamo ancora così resi conto.
In particolare tra Paola, Marzia, Federica e la sorella di Bilal, così come per Marco e Simone con diversi ragazzi, si creato un vincolo affettivo..abbracci, respiri, lacrime e carezze sul volto con un reciproco “habibi, take care”

Arrivati in ostello ci godiamo una bella doccia calda…siamo rinati!e profumati!
Facciamo anche ben 3 lavatrici…eh si, da quando abbiamo deciso di venire in ostello ci siamo permessi di cambiarci alcuni abiti in più…;0)

Pausa, tempo per noi, per parlare, per fumarci un narghilè sul balcone dell’ostello..e ora pronti ad uscire per andare a cena.

12 luglio- giovedì
La serata di ieri si è conclusa con un nuovo cerchio di energia davanti alla basilica della Natività.
Incominciamo a sentire quanto è forte questo momento: come individui e come gruppo! E’ un modo che serve per ricaricarci dentro e per ricordare quanto sia importante la forza dei legami all’interno del gruppo per riuscire a vivere certe emozioni….
Finalmente si dorme su un letto…qualcuno ci ha ascoltato…
Prima di cadere tra le braccia di Morfeo rendiamo  la nostra stanza un vero e proprio inferno di liane..Napoli a confronto ci fa un baffo!!! Mutande, calzini, pantaloni, magliette riempiono tutta la stanza di odori sublimi J una vera RINASCITA
Sveglia…Stamattina abbiamo un appuntamento importante, ci aspetta Suor Lucia al Caritas Baby Hospital con il gruppo dei clown. Lucia ci accoglie sorridente e solare. Percepiamo una forza dentro di lei, nonostante il suo fisico esile. Ci appare determinata, entusiasta e molto motivata in ogni suo gesto. Ci racconta della sua vita in Palestina e dei suoi incarichi all’interno dell’ospedale. Dell’essere suora ed infermiera in Palestina con tutti i vincoli e i limiti. Parla del muro, quel muro che più che essere fisico è un muro che molti portano dentro. Un muro che spezza, che spegne sogni e speranze e anche tante vite umane ( se si pensa ai problemi e ai costi di trasporto di un bambino da un ospedale di  Betlemme ad uno di Gerusalemme non è difficile pensare il perché di tante morti infantili nella West Bank). Ci racconta della voglia del gruppo clown di andare fuori dalla Palestina, della burocrazia che c’è dietro per organizzare delle gite fuori dai territori occupati e della voglia dei ragazzi di viversi anche l’ultimo secondo in Israele prima di rientrare nel proprio mondo..anche stando semplicemente davanti al checkpoint con l’orologio in mano in attesa che scadano gli ultimi secondi di tempo a loro permesso (infatti i permessi sono ad esempio di 24, 48 ore ed entro questo tempo devono rientrare nei territori). Il suo sorriso illumina e nonostante le avversità ci racconta di come il gruppo abbia voglia di realizzare qualcosa e di provare a cambiare il proprio mondo.
Scopriamo attraverso le sue parole e quelle di Midal (infermiere) quanto l’essere Clown sia uno strumento di Crescita, di Condivisione e di sostegno sia nel lavoro di equipe che nel rapporto con i pazienti. I dodici clown palestinesi fanno parte del personale ospedaliero (infermieri, dottori, assistenti e tecnici) e sono stati formati in questi ultimi 4 anni dal gruppo delle Coccinelle, Andre Casaca, Rodrigo.
Ci sentiamo a casa, alcuni di noi hanno avuto la fortuna di incontrare questi formatori, quindi sente il legame forte e la somiglianza con i valori in cui crediamo anche noi. Le parole di Midal ci fanno tenerezza e creano una sintonia con i nostri vissuti sia come clown che come esseri umani. Sentire pronunciare le seguenti parole “ Prima pensavo che il clown fosse solo andare in corsia per far ridere e rallegrare la gente. Mano mano ho scoperto cosa vuol dire essere clown : la forza che questa piccola maschera ti dà anche nel quotidiano, al lavoro e in famiglia. L’essere clown è proprio una filosofia di vita che ti porti dentro e che fa parte di te in qualsiasi circostanza”.. Ognuno di noi ritrova il suo cammino personale di crescita e le nostre esperienze passate e vissute  attraverso le sue parole.. le distanze non sembrano esserci nonostante le diversità culturali.
Lucia ci racconta proprio che l’essere clown in Palestina ha permesso di superare tantissime barriere non solo mentali, ma soprattutto fisiche tra le persone. La cultura araba è molto materialista e ogni cosa viene fatta solo se finalizzata a qualcosa di concreto ed effettivo che si può vedere o toccare. All’inizio, per tanti clown è stato molto difficile riuscire anche ad esprimere i propri sentimenti e condividerli in gruppo. Nel tempo tante difficoltà sono state superate e si è raggiunto uno stato di consapevolezza tale da permettere un ascolto profondo tra le persone nei momenti di gruppo. Gli esercizi di contatto fisico tra donne e uomini sono diventati più fluidi e frequenti…Tanti tabù sono stati superati.
Ogni spostamento risulta lungo e complicato per questa gente e risulta veramente difficile riuscire avere un piano di programmazione.
Nella sala ci raggiunge anche un altro clown, la sua entrata è tipica del nostro mondo..ci viene subito da ridere..Ci racconta la sua esperienza e anche lei spiega come l’essere Clown l’abbia cambiata dentro: rendendola positiva anche nelle situazioni difficili e aiutandola ad esprimere con maggiore consapevolezza se stessa.
L’incontro è veramente molto interessante anche per provare ad avere un’idea della storia dell’Ospedale, su come viene gestito, come riesce a sopravvivere e garantire assistenza esclusivamente grazie alle donazioni.
Decidiamo di fare un giro nel settore amministrativo dove troviamo suor Gemma che ci fa vedere i lavori a cui si dedicano le donne Palestinesi.
Ci racconta di donne coraggiose e piene di voglia di lavorare, non disposte ad elemosinare, ma ad ottenere denaro in maniera dignitosa grazie ai lavori realizzati.
Continuiamo il nostro giro nella nursery e poi entriamo in ospedale. Lucia , capofila, ci apre le porte del reparto di pediatria, terapia intensiva prenatale e neonatologia.
Siamo tutti accolti molto calorosamente dalle infermiere e dai dottori dei vari reparti. Anche le mamme giocano e sono pronte a farsi fare dei massaggi antirughe a ritmo di sorrisi. Si respira un bellissimo clima, nonostante sia un luogo di dolore tutti a loro modo trovano un momento per sorridere, anche i dottori seri che di solito non riescono a lasciarsi andare.
A pranzo continuiamo a parlare con Lucia del nostro progetto in questa terra, della voglia che abbiamo di lavorare con le donne arabe e con la parte israeliana.
Anche lei nel suo piccolo sta cercando di creare un ponte tra queste realtà proprio attraverso il mondo clown , avvicinando i clown palestinesi con quelli israeliani.
Ci propone visto il nostro entusiasmo e la nostra voglia di fare, di partecipare ad un giorno di Summer Camp nella “Tenda delle Nazioni” , un campo di ulivi situato in una collina tra quattro insediamenti Israeliani, poco distante da Betlemme, localizzato in zona C.
Non ce lo facciamo ripetere una seconda volta e con il pensiero ci vediamo già proiettati li…una breve telefonata e domani faremo parte del gruppo internazionale per allietare una mattinata con i bambini.
Salutiamo Lucia e ci dividiamo: Pally e Marzia tornano ad Aida Camp a riprendere il beauty di Federica, mentre gli altri si fanno un giro al centro di Betlemme, tra le botteghe dove lavorano gli ulivi. L’accoglienza di Bilal al centro è fantastica, si sente il legame forte tra di noi e ci racconta anche di come a suo modo gli manchiamo.
Tornati tutti all’ostello ci dedichiamo alle prove dello spettacolo e poi cena con Bilal.
Bilal ci racconta che alcuni palestinesi gli hanno riferito che ci sono alcuni italiani che vogliono cancellare il nostro murales…non lo ritengono idoneo come forma di protesta. Ovviamente Bilal ha fatto presente che il MURALES non SADDA TOCCA.
Si ritorna a parlare del gruppo italiano e delle varie incomprensioni che ci sono all’interno, della  non attenzione alla cultura da parte di alcuni (ad esempio una coppia si è baciata in mezzo alla strada al campo Aida e questo lo ha fatto infuriare…qui non si fanno queste cose, ed essendo con lui il tutto ricade su di lui) e della loro voglia di continuare a protestare in maniera violenta nonostante siano anche poco informati su alcune realtà palestinesi.
Bilal è consapevole di ciò, infatti non li considera amici, tuttavia ci fredda quando ci dice:
PALLY MA TU CHE FARESTI SE ENTRASSERO DENTRO CASA E TI CACCIASSERO VIA? GLI DARESTI IL BENVENUTO O SARESTI PRONTA A PROTEGGERE LA TUA CASA CON TUTTI I MEZZI POSSIBILI QUINDI ANCHE QUELLI VIOLENTI?
E’ difficile poter rispondere, è difficile poter capire o meglio provare solo ad immaginare cosa vuol dire quali siano i sentimenti messi in gioco…li ti senti inerme , non sai cosa dire, senti le pietre che ti arrivano addosso. Ma Bilal sa andare oltre, forse perché l’amicizia riesce a superare certi confini, certe barriere mentali…forse di fondo abbiamo tantissime cose in comune..

13 luglio- venerdì
Oggi ci rechiamo alla Tenda delle Nazioni, così come ieri Suor Lucia ci ha consigliato.
Come ben ci spiegano nel momento in cui arriviamo, si tratta di una famiglia palestinese che possiede questa collina fin dal 1916 e che da decenni resiste per riuscire a mantenerne la proprietà.
A differenza di tanti altri palestinesi, loro hanno potuto dimostrare la loro proprietà e per questo motivo, nonostante tuttora abbiano una causa in corso, al momento ne mantengono il possesso.
La loro resistenza è continua, sono praticamente completamente circondati da 4 insediamenti che continuano a mangiare terra, sono stati in passato attaccati e ancora oggi gli propongono un “open cheque” (assegno in bianco) pur di avere la loro terra.
Questa famiglia ha pensato di rendere visibile il tutto creando un sito web  www.tentofnations.org e, così come desiderio del nonno, ha dedicato questo spazio all’incontro tra la gente di tutto il mondo, al di là della provenienza, della religione con l’idea che solo incontrandosi  e creando dei ponti le persone possono davvero conoscersi, contattare il cuore l’uno dell’altro e camminare insieme divenendo costruttori di pace.
Ci spiegano che qui vengono organizzati incontri di formazione e di crescita personale, sviluppo della stima di sé, della propria espressività, di meditazione sia con adulti sia con gruppi di sole donne e pure lavori simili, anche in forma di summer camp estivo, con bambini e ragazzi.
Vengono a condurre tutte queste attività dei professionisti volontari di varie parti del mondo, oltre che avere l’ausilio, e talvolta la conduzione stessa, da parte di alcune persone del luogo.
Il posto è meraviglioso, immerso nel verde, ben curato, con una grande attenzione al dettaglio e all’armonia. Vi sono pitture e dipinti che raccontano la volontà di lavorare nell’amore, mani colorate su un cancello che chiude una grotta, tende dove si puo’ lavorare, vi è l’orto, una cappella per pregare.
E ancora degli animali, qui trattati bene e rispettati cosi come l’ambiente, vi sono i pannelli solari per ottenere energia elettrica e, oltre al bagno tradizionale, svariati bagni compost: tramite un nomale water tutti finisce nella terra e, al posto dell’acqua, si fa uso di foglie così che possa poi avvenire un processo chimico naturale di trasformazione.
Anche qui, essendo in area c, ogni costruzione è abusiva e puo’ essere distrutta da un momento all’altro, così come già è stato fatto. Ovviamente manca l’acqua corrente e l’elettricità.
La loro resistenza, ci dicono, passa anche da scelte concrete come piantare 500 ulivi dopo che ne sono stati distrutti 300.
All’entrata ci colpisce  una scritta su una roccia “we refuse  to be ennemy” (ci rifiutiamo di essere nemici).
Nel corso della mattinata abbiamo una mezzora per fare attività con i bambini.
Tutti riuniti sotto una tenda proponiamo alcune bans di espressione corporea, yoga della risata e qualche gioco.
Jano, la moglie di Dan (la famiglia proprietaria) si ferma a parlare con noi in quanto colpita da alcune delle cose che abbiamo proposto. Nasce così la possibilità di spiegare in breve il senso delle cose fatte e di come potrebbero essere ampliate, un esempio per tutti lo yoga della risata abbinato a un’educazione ad una corretta respirazione e su cosa lavorano.
Il discorso diventa ampio, i punti di incontro sono davvero tanti. Comprendiamo perché suor Lucia ci ha mandati qui.
Ci chiede se possiamo tornare per proporre delle attività, sono interessati anche a fare formazione con i giochi. Si dice che per quest’anno non riusciamo ma inshallah restiamo in contatto e si vedrà in futuro.
Ci porta a visitare la cappella dove troviamo un gruppo che sta lavorando sulla sintonia, sull’ascolto, sulla fiducia.
Osserviamo come qui tutto sia molto più “occidentalizzato”: tutto è molto organizzato, i gruppi sono poco numerosi, ognuno ha un proprio spazio, le attività sono pianificate in base ai conduttori e al tema della giornata (esempio, la paura, la fiducia, le relazioni…).
La grande differenza probabilmente la fa il fatto che qui sono prevalentemente arabi cristiani e cristiana è la famiglia proprietaria e che organizza.
Lasciato questo meraviglioso posto così colmo di pace, colori e tranquillità a dispetto di quanto lo circonda, torniamo in ostello a Betlemme dopo un pranzo insieme in attesa che Giulia (Mezzepunte) arrivi con Bilal.
Eh si, oggi ci raggiunge dall’Italia Mezze e sarà Bilal ad attenderla al checkpoint di Betlemme .
Appena ci incontriamo partiamo per Tuwani. Con grande sorpresa Bilal fa il viaggio con noi.
Per la prima volta metterà piede a Tuwani.
Sappiamo che vuol dire tanto questa sua scelta, anche se per ora non si fermerà, il solo fatto di accompagnarci parla di un suo cambiamento, di un suo essere andato oltre dei suoi limiti e pregiudizi. Ricordiamo infatti i suoi primi commenti su Tuwani, sulla scelta di questa popolazione di portare avanti la resistenza in una forma non violenta.
L’arrivo a Tuwani è emozionante, non puo’ che essere così.
Incontriamo Hafez e le Colombe, volti nuovi e vecchi.
Poco dopo il nostro arrivo Hafez ci invita tutti ad andare a Mufaggara, il villaggio dove domani ci sarà il Festival della Resistenza Popolare Non Violenta.
Stasera infatti vi sarà una riunione per l’organizzazione.
Mufaggara, un villaggio nel deserto composto da alcune grotte e tre tende, ci accoglie sotto un cielo stellato brillante e meraviglioso.
Si respira aria di infinito. 
E’ uno spazio infinito.
(le stelle e la via lattea illuminano un cielo nero come la pece, allungando la mano sembra quasi di poterle toccare, piccole abatjour )
Dopo un breve momento di condivisione sotto la tenda principale, tutti gli uomini si riuniscono. Si forma quasi naturalmente un cerchio, l’attenzione è inizialmente tutta rivolta a un uomo che con una specie di chitarra accorda canzoni dal ritmo arabo e popolare. Veniamo subito invitati ad entrare nel loro mondo di ritmi, canti e balli. Simone dopo numerose proposte inizia a intonare qualcosa (perlopiù monosillabi) mentre Marco prova a ritrovarsi tra le mille corde di quell’araba chitarra. Poi ci viene insegnato quel che ci pare essere un ritornello (impossibile averne la certezza) che riusciamo entrambi a storpiare. L’atmosfera è quella di una festa, un incontro tra amici che non si vedono da tantissimo tempo e vogliono condividere un po’ di tempo semplicemente facendosi collegare dalla musica. Il gran finale lo riserviamo a Bella Ciao che “stranamente” nessuno conosce (ad Aida sembrava canzone nazionale). E’ difficile riuscire a descrivere le nostre sensazioni del momento che andavano dallo smarrimento al sentirsi a casa.
Nel frattempo le donne e le bambine bevono thè, ballano e, ogni tanto, sbirciano da una finestrella la tenda degli uomini.
Si torna a Tuwani e ci aspetta la prima notte sul tetto della casa di Hafez, sopra di noi il cielo che durante l’inverno è soltanto un affettuoso ricordo.

14 luglio- sabato
L’alba di Tuwani si presenta davanti a noi al nostro risveglio.
Siamo pronti per questa lunga giornata. Il festival durerà dal mattino fino a mezzanotte con una breve pausa pomeridiana nelle ore più calde.
La giornata, ci racconterà Hafez, ha avuto un gran successo. E’ la prima volta  che questo festival non viene fatto a Tuwani. La scelta è caduta su Mufaggarah sia per il grande sostegno che in questo periodo vi è per questo paese nel quale i soldati recentemente hanno distrutto la moschea e altre costruzioni (che con grande resistenza stanno ricostruendo) sia perché è il villaggio con il quale si sta lavorando per “l’empowerment” della resistenza non violenta.
Tanto è stato fatto in quest’anno.
Ci raccontano di un episodio successo tempo fa quando due ragazze sono state arrestate e nessuno è intervenuto e di come le cose siano cambiate ora, di quanto il paese si senta più forte e unito. Basti pensare che recentemente durante il summer camp un colono ha rubato uno dei tanti copertoni dipinti dai bambini che sono stati messi ad indicare la strada che porta al villaggio. Tutti i bambini con le donne sono andati davanti all’insediamento  chiedendolo indietro. Non hanno desistito. E’ uscito un colono e ha reso loro un copertone, non il loro ma glielo ha comunque restituito.
La giornata ha avuto successo in quanto ha visto la partecipazione di tanti internazionali, anche israeliani, e di palestinesi di diversi villaggi anche a due ore di cammino.
E qui non è poco considerando tutte le difficoltà che ci sono nello spostarsi.
Mordicchio e Mezze ne hanno una prova quando il pulmino su cui viaggiavano con le persone del villaggio viene fermato da una camionetta all’entrata di Mufaggarah. Qui la gente è abituata, infatti valorizzano la nostra presenza per convincere i soldati a lasciarci passare.
Sul palco si alternano discorsi di vari rappresentanti della resistenza, canzoni, balli tradizionali tra cui la dabqa, e il nostro spettacolo.
Prima del pranzo siamo tutti pronti per un’azione non violenza.
Una lunga scia di palloncini colorano la vallata di Murfaggarah.
Al ritmo di : 1, 2 ,3, 4 : “ Occupation NO MORE” , 5,6,7,8 Israel Fascist State” con i bambini e gli abitanti del luogo e gli altri internazionali ci dirigiamo davanti all’avamposto di….
Al nostro seguito una camionetta di soldati arriva a tutta velocità.
Al via di Hafez tutti lasciano andare i palloncini….un arcobaleno di speranza tra i cieli delle colline aride e ardenti a Sud di Hebron.
Breve pausa nel pomeriggio durante la quale torniamo sotto la guida di un ragazzo del luogo il quale ci fa fare la strada che costeggia Havat Maon (avamposto di coloni)..qualche perplessità e si va!
Al ritorno siamo invece accompagnati da Houssein, uno dei figli di Hafez, e da altri ragazzi tra cui uno dei figli di Kiffa il quale condivide con Simone i sui sogni, i suoi progetti per il futuro: voler studiare lingue all’università e facilitare così la comunicazione tra le persone, essere ponte.
La serata prosegue sotto le stelle immersi in questo deserto con balli di uomini tra uomini…interessante, ammaliante osservarli mentre si incontrano, si sorridono, si sfidano, si riconoscono, si rincorrono, si seducono e si fanno sedurre, esplodono nella loro vitalità, nella loro forza, talvolta in movimenti ed incontri uno ad uno, talvolta uniti come fratelli in un cerchio che sprizza ritmo, gioia, movimento vivace che sa di terra, che sa di fuoco, che profuma di vita, di un universo donato alle donne che altro non possono fare che respirarlo e goderne, senza la pretesa di comprenderlo, di farne parte, consapevoli di essere di fronte all’altra parte di sé, splendida quanto la propria, complementare al proprio mondo solo apparentemente più calmo e discreto e che insieme formano l’unità di uomini e donne che qui si presentano così ben definiti e rispettosi nei loro differenti ruoli.

15 luglio- domenica

Alle 8.30 siamo pronti per partire per Al Mufaqarah e aspettiamo un segnale di ok da parte di Hafez per capire se dobbiamo andare da soli o con le colombe. Peccato che solo alle 10.30 Hafez comparirà sull’uscio della nostra porta pronto a dirci : Ma non siete andati? ….Ci sentiamo proprio a disagio, sappiamo che ci stavano aspettando, ma noi pensavamo che avremmo ricevuto direttive da parte di qualcuno.  Rimediamo subito, alle 17.00 promettiamo di essere già li pronti a giocare con i bambini. La mattina la passiamo a fare collane e braccialetti con Amura, Samua, Gamer e la loro cuginetta. Notiamo con immenso piacere che anche Amir, Nadim, Houssein rimangono affascinati da tutte le perline e fili. Escono fuori collane super tamarre e coloratissime ..e i nostri boys sono veramente felici di sfoggiarle per avere apprezzamenti da parte di tutti.
Verso le 14.30 scopriamo che saremo noi le cuoche di turno..cuciniamo pasta al sugo con tonno e olive per i figli di Hafez e per  tutti noi. Houssein continua a dire “buttate tre pacchi di pasta “, ma non vogliamo sottrarre la pasta alla famiglia : sappiamo che i bambini ne vanno matti!
Subito dopo pranzo, sotto il sol leone ci incamminiamo verso Al Mufaqarah.Ci guardiamo intorno, come ci hanno insegnato le colombe  è sempre meglio avere gli occhi aperti, camminare con andamento veloce, in fila , uniti e compatti. Cerchiamo di seguire il percorso che ci ha fatto vedere Houssein e tra una discesa e una salita sulle rocce ci ritroviamo alla meta. Ad accoglierci le piccole vedette di Al Mufaqarah pronte ad accoglierci nella tenda. Rituale giro di thè aspettando mano mano che arrivino i bambini. Si inizia con bans, canzoncine e giochi. Il ritmo sale, l’empatia  tra di noi e con i bambini diventa sempre più forte. Si uniscono le colombe  e il cerchio energetico diventa sempre più luminoso. I bambini si coalizzano tra di loro nei giochi e i clown si ritrovano nella morsa del loro divertimento. Ai giochi si alterna un laboratorio creativo di decorazioni e braccialetti e poi via fuori dalla tenda a giocare con il paracadute..Il vento di Al Mufaqarah accoglie la varietà di colori e di sorrisi divertiti dei bambini. Da lontano si osservano i colori caldi del tramonto scendere sull’avamposto di  Havat Maon . E’ un po’ triste dover andare via, salutiamo tutti ma forse ci rivedremo presto! Ci godiamo la camminata verso casa. Passo dopo passo scorgiamo all’orizzonte una camionetta di soldati. Aspettiamo di avvicinarci, davanti a noi partono subito le due colombe per tenere d’occhio la situazione. Noi siamo pronti con i passaporti nell’eventualità che ci possano chiedere i documenti. Vediamo la camionetta ferma, una gomma a terra e 4 soldati armati. Accanto alla camionetta altre colombe che gentilmente sono venute a prestare assistenza. Ci avviciniamo ai soldati per salutarli…c’è uno scambio, occhi negli occhi, noi accenniamo a dei sorrisi, ci guardano strani. Cerchiamo di rompere gli schemi : Pally canta Somewhere over the rainbown mentre Marco ammalia tutti con il suo contact e le palline. Gli sguardi attoniti dei soldati accennano piccoli sorrisi ed espressioni di stupore e meraviglia. Sicuramente non ci considerano molto normali …nonostante l’imbarazzo, anche tra di loro fanno delle battute. A seguire Souko Souko Bati Bati , Smile, With or Without you allietano un clima che a volte sembra teso. Pally si avvicina al soldato più giovane che continua ad impugnare l’arma e la fa ruotare da una parte all’altra. Cambia i proiettili a ritmo della canzone Ovunque Proteggi, e cerca di tenere lo sguardo verso il basso. Quanto può far paura la musica dolce di un clown.
Il secondo soldato cerca di cambiare la ruota,  mettendo tutta la forza che ha, il terzo soldato è sempre al telefono per aggiornare la situazione, mentre il quarto è dentro la camionetta. Una scena incredibile: si avverte nell’aria la sensazione di paura e la voglia di difendersi. Quanto un sorriso può disarmare…Pally continua a sorridere prova a contagiarli. “Strong Man” urla Pally al soldato che sta provando a cambiare la ruota. Lui si ferma e sorride, il terzo soldato smette per un attimo di parlare e chiede: Sei italiana? E’ un provare ad andare OLTRE a cercare quell’umanità che tanto ci accomuna che ci unisce e che ci fa sentire cosi vicini e simili. Altri invece decidono di rimanere tranquilli a chiacchierare sul lato della strada. Alcuni di noi non hanno il piacere di socializzare con questi uomini che indossano una divisa, ma si limitano a degli sguardi a distanza, sentendo comunicativa anche solo la nostra pacifica presenza in quella terra, troppo spesso teatro di oppressione e indifferenza. Ed ecco che le armi si trasformano, smettono di dividerci, di farci sentire uomini nonostante le diversità di ruoli , contesti e ordini…un sorriso ci avvicina, ci contagia..per un attimo questo piccolo cerchio ci unisce. Si scherza su Spagna- Italia 4-0. Certo che di calcio non si sono persi nemmeno una partita! Cala la sera andiamo via…un saluto rapido e un TAKE CARE vari pensieri in testa..lungo la strada continuiamo a salutarli…ad ogni movimento di mano vediamo il loro stordimento…un soldato sale sulla camionetta…davanti a noi Tuwani.
In serata facciamo una condivisione molto speciale come gruppo!

16 luglio- lunedì

Oggi si va ad Umm Al Keer.Già l’anno scorso Marzia, Giulia e Pally avevano avuto il piacere di vedere questo villaggio. Sicuramente rivederlo per la seconda volta ci rende più preparati, ma nonostante tutto è difficile rimanere anestetizzati da certe realtà e anche se uno ritorna in certi luoghi non credo che possa abituarsi ad accettare certe ingiustizie. Il villaggio si trova attaccato alla colonia di Karmel.Già l’anno scorso eravamo rimasti colpiti dal fatto che tra la colonia e il villaggio ci fosse solo il filo spinato a separarli. L’oppressione e le rivendicazioni della colonia si sentono costantemente. I coloni continuano ad attraversare il villaggio fatto per lo più da tende, distruggendo i tubi di luce e acqua in quanto gli israeliani non gli hanno permesso di interrarli nel suolo
Ci accoglie il vecchio del villaggio, che riconosciamo (M.,G.,P) e ritroviamo più invecchiato. Si trascina zoppicando ma con una grande compostezza verso la tenda. Ad accoglierci una decina di bambini che rimangono estasiati dalle gag improvvisate di Simone e Marco.  La scenetta degli strumenti musicali fa scintille e i ragazzi grandi ne richiedono il bis. Vediamo ogni tanto dei coloni passare con grandi macchine. Non girano mai la testa, vanno dritti quasi a voler annullare qualsiasi presenza umana. La legge dell’indifferenza porta veramente a cancellare e rifiutare  l’esistenza e la coesistenza tra gli esseri umani.
Prendiamo il paracadute, abbiamo bisogno di colorare quell’angolo di vita. Passa una macchina dell’UN e si ferma a guardare.
Altri incontri accompagnano questa mattinata: ci colpisce il volto che ci osserva di un colono mentre passa lungo questa strada che divide il villaggio e pure un gruppo di bambini coloni che passa vicino a noi per entrare nella loro gabbia…già gabbia..perchè quello che ci arriva è che, sebbene loro possano muoversi con maggiore facilità, abbiano una casa con un giardino rigoglioso, e siano sicuramente gli oppressori, condividono un sistema di chiusura, di mancanza di libertà, di mal di vivere.
Siamo tentati di andare verso questo bambini…pensiamo all’unione..a quanto sarebbe “possibile” creare un unico cerchio e insieme condividere, ridere e giocare…perchè i bambini a differenza degli adulti, rimangono sempre e solo bambini, uguali sotto tutti i punti di vista...il ritorno immediato alla realtà e alla quotidiana sofferente e opprimente che qui viene vissuta fa morire sul nascere questa idea. Sicuramente qui non potrebbe ora essere visto come movimento per andare incontro all’altro, per conoscerlo…attendiamo …per tante cose i tempi sono ormai maturi..inshallah. Per ora Simone e Marco giocano a calcio con la viva raccomandazione dei bambini a non lanciare il pallone dall’altra parte..mentre Giulia cede all’insistenza di un bambino che desidera essere fotografato. Ha un effetto speciale fotografare un bambino che potrebbe essere l’emblema della povertà, dell’oppressione che sorride vicino alla sua tenda con le colonie alle sue spalle. Federica nel frattempo entra in una delle poche case: una fila di mattoni, lamiere e cemento e raccoglie i magici sorrisi di queste mamme, di questi bambini. La mattinata prosegue nell’altra parte del villaggio. Anche qui le famiglie, pur essendo poche, non hanno relazioni felici.. pertanto qualcuno sceglie di non accompagnarci e si confrontano tra loro per decidere chi potrà condurci nell’altra parte del villaggio.
Questa separazione la troviamo costantemente in Palestina, è una frammentazione che si incontra dal piccolo al grande, nelle famiglie, nei villaggi, tra i villaggi per arrivare fino all’intera West Bank.
Ma noi vogliamo essere ponte ecco perché decidiamo di andare a trovare anche le famiglie che si trovano di fianco alla colonia che comunque fanno parte di Umm Al Kheer.
Simone, Giulia, Federica e Nasser, sopranome acquisito da Marco non possono rifiutare la gita nella macchina tipica palestinese (un accumulo di lamiere senza ammortizzatori) nel breve pezzetto di strada sterrata che collega le due parti del villaggio. Mentre Marzia, Pally, e le colombe fanno il tragitto a piedi. Lungo il tragitto i nostri occhi sono puntati verso la colonia, verso quel filo spinato che tanto protegge e  separa.
Pally si ferma un attimo e si avvicina al filo spinato. Lancia il naso rosso dall’altra parte della barricata, riprendendo subito dopo il passo veloce per raggiungere gli altri .Un lancio di speranza.
Anche tra queste famiglie veniamo accolti a braccia aperte.
In questa terra la semplicità dei gesti, dei sorrisi , delle strette di mano  e delle bevute di thè diventano il filo di congiunzione per entrare a contatto con la gente e con la terra. Giochiamo e cantiamo con i bambini. Almeno per un giorno  avranno qualcosa di giocoso da raccontare.
Tornati a Tuwani troviamo Bilal davanti alla nostra casa. E’ una sorpresa meravigliosa. Sappiamo benissimo quanto è difficile per lui venire in un posto come questo : un violento in un territorio non violento….bella sfida.
Quante cose sono cambiate, un anno fa abbiamo portato Ahmad, il clown di Gerusalemme e quest’anno Bilal…e l’anno prossimo chi ci accompagnerà lungo questo cammino?
Dopo il pranzo ci prendiamo il tempo per rilassarci andando sulla collina.
All’albero Pally e Bilal parlano, si confrontano, si conoscono e riconoscono. Bilal apre le pagine della sua vita : la sua adolescenza da bambino in un campo profugo, i suoi 14 anni e l’interruzione dei suoi studi, i suoi 17 anni in cui andava in giro armato, la sua opposizione davanti al caterpillar per impedire la costruzione del muro, l’Intifada, la prigione,le torture, la solitudine a partire dai suoi 18 anni in quanto residente in una casa al di là del muro, il dolore che ha provato per la perdita dei suoi amici, la mancanza di soldi tanto da non permettergli nemmeno di comprare il pane, le sue continue lotte per resistere, per dire basta , per iniziare a sperare. Piange Bilal, piange…le sue lacrime racchiudono pezzi di una vita dura, faticosa piena di rabbia. Piange: vederlo cosi forte e cosi fragile, cosi duro e cosi piccolo. Purtroppo non posso abbracciarlo. In quel silenzio siamo in due a piangere. Asciugo le lacrime di Bilal , non è facile per un uomo palestinese farsi vedere cosi..ma la nostra amicizia va oltre.
Si continua a parlare della rabbia , Bilal sa riconoscerla dentro, sa di averla e sta facendo di tutto per cercare di trasformarla. “Io non ero cosi, mi ci hanno fatto diventare , ma sto provando a cambiare”.
E cosi si parla della violenza, di come ci si possa sentire e di tutte le emozioni che si possano provare nel momento in cui si lancia una pietra. Bilal dice: “ Io sto male, mi sento male quando lo faccio .Cosa mi spinge a fare ciò è ricordare tutti i caduti di questa assurda guerra, tutti gli amici e tutti quelli che in questa terra ci credono ma so che non è giusto, che la vendetta non è la strada giusta.. Perchè cara Pally io la storia non l’ho imparata sui libri, l’ho vissuta sulla mia pelle,  ho ancora le cicatrici fuori ma soprattutto dentro. Ma la mia speranza sono i bambini, il centro,dare almeno a loro la speranza di avere tutto quello che io non ho mai avuto: cultura, consapevolezza, famiglia, amore…Perché a me l’amore me l’hanno portato via”. Continua a piangere. Pally e Bilal in quell’istante raggiungono i loro check point personali .
Bilal: “ Quando ho letto il vostro messaggio sul murales AMARE PER DISARMARE d’istinto ho lanciato sul muro il colore che era rimasto, sentivo salirmi la rabbia di voler essere cosi libero da questa oppressione per provare ad essere come ti senti tu. Spero solo di saper ricominciare ad amare”.
Pally : “Già lo stai facendo, riconoscersi violento e voler provare a cambiare è già un bellissimo passo in avanti”. Pally si alza e grida a Bilal : “ Dai lanciami una pietra, dai fallo”. Bilal incomincia a lanciare le pietre ma solo una volta sfiora la gamba di Pally.Poi dice : “ No basta, non lo posso fare”.Pally ritorna al posto, per un attimo la mia mano è nella sua…” Se ti spedisco dei nasi dall’italia, mi prometti che alla prossima manifestazione li lancerai verso il muro? “ .Bilal ride : “ Se, se..tu spediscimeli poi si vedrà”.
Ci sdraiamo sulle rocce respiriamo insieme allo stesso ritmo..in quell’istante condividiamo più di un pezzo di terra..,un meraviglioso capitolo di vita!
Il pomeriggio c’è il classico appuntamento alla Madrasa ( Scuola) e come l’anno scorso decidiamo di fare un giro per tutto il villaggio per richiamare i bambini. Sappiamo che alcune cose sono cambiate nel villaggio, quindi cerchiamo di essere neutrali e decidiamo di chiamare tutti i bambini indipendentemente dalle questioni interne. Se ascoltassimo i bambini sicuramente tante discussioni e conflitti si risolverebbero più facilmente..il mondo dei grandi è sempre più complicato!
Marzia e Pally si dirigono verso casa R., vediamo da lontano alcuni bambini che ci invitano ad entrare in casa. Dal terrazzo la mamma R. ci fa un sorriso e ci invita ad entrare. I R. sono una delle famiglie più numerose di tutto il villaggio, appena entriamo sentiamo le urla dei bambini al ritmo di auanagana, o alele..è una festa …anche le donne rimangono stupite e tanto la foga delle urla che esce anche uno degli uomini R. che ci invita a prendere il thè.
Ci fa diverse domande : Come mai siete arrivati cosi tardi? Quanti siete? Che programma avete per questi giorni? Sentiamo un certo disagio, sappiamo che dobbiamo stare attenti alle parole, ma con il nostro fare clownesco riusciamo a defilarci soprattutto quando ci chiede se domani possiamo accompagnare i bambini in piscina.
Già abitualmente la relazione con questa famiglia è molto delicata, in questo periodo ancora di più. Vi sono state prese di posizione di vita e di resistenza differenti rispetto al paese, basti pensare che questa famiglia ha organizzato un proprio summer camp e un proprio festival della resistenza.
Come sempre noi, d’accordo con i nostri partner, siamo qui per tutti e ci poniamo come strumenti di unione, ciononostante non possiamo prescindere dalle condizioni reali e culturali.
L’indomani noi saremo a Tuba, evitiamo di dire i nostri programmi ma facciamo presente che tutti i pomeriggi saremo alla scuola fino alle 19 per giocare con tutti i bambini.
Con la coda dell’occhio vediamo le colombe passare lungo la strada. L’uomo R. segue il percorso delle colombe ma fa una smorfia. Sicuramente tante cose ci sfuggono, ma anche noi abbiamo scelto di seguire tutto quello che dice Hafez e quindi appena finito il thè scappiamo alla scuola con 15 bambini al seguito per dedicarci ai giochi. Il cortile è gremito, i bambini sono quasi tutti della famiglia R., che ha diversi nuclei nel villaggio. Anche Federica e Giulia si ritrovano a gestire l’insistenza di alcune giovani donne, sempre R. che le invitano, ma riescono a convincerle a chiacchierare sulle panchine del cortile della scuola. Con poche parole di inglese si parla soprattutto di famiglia: le differenze culturali sono significative ma in realtà scopriamo che sono sensibili all’argomento in quanto sono originarie della cittadina di Yatta, e sono al villaggio per una lunga vista alla famiglia. Grazie all’aiuto di Bilal riusciamo in maniera ordinata a gestirci il cortile tra una partita di calcio e bans e giochi con i bambini. Bilal prima di andare alla scuola ci ha chiesto di potergli dare un naso. Vedere un uomo palestinese indossare un naso firmato da tutti noi e sentirlo libero e sereno dentro è qualcosa di meraviglioso. Bilal con i bambini si illumina, si diverte, sente che in quel momento la vita gli sta restituendo una parte che gli è stata sottratta. Tutti i bambini sono ammaliati da lui. Più lo guardiamo più pensiamo alla sua trasformazione in terra palestinese, alla sua voglia di cambiare allo sforzo che sta facendo per migliorare. Venire a Tuwani per lui è stato affrontare e provare ad affrontare un suo grande limite, la non violenza. E cosi i pensieri viaggiano…non si sa ma tra un paio di anni chi lo sa, avremo un Hafez 2 ?

17 luglio – martedì
Bilal si sveglia alle sei e ha voglia di scherzare già dal primo mattino, noi in coma da sonno assistiamo con passività. Federica, Giulia e un paio di colombe soccombono a vari batteri intestinali che uniti a stanchezza e caldo torrido rendono la loro giornata molto difficoltosa. Jamal, l’autista,  come sempre arriva prestissimo e noi appena svegliati cerchiamo di riprenderci dalle poche ore di sonno della notte precedente. Tuba ci aspetta, ci fa compagnia Bilal, ospite inatteso ma graditissimo nonché rivelazione della missione CIP 2012. La strada per Tuba, se così la si può chiamare, si rivela un duro avversario per gli stomaci del gruppo che nonostante tutto reggono bene.
La prima sorpresa della giornata è l’avvistamento di una volpe in mezzo al deserto torrido.. è incoraggiante vedere una selvaggia forma di vita in mezzo al nulla.
Osserviamo pure un dromedario ..anzi ben più di uno…e Simone, nel vederlo, ci chiede seriamente dove si inserisce la cannuccia per potere bere…credendo infatti che si potesse bere dalla sua gobba!!
Prima di arrivare scorgiamo un gruppetto di ragazzi che ci salutano con visibile entusiasmo, i nostri occhi si accendono: “Ci stavano aspettando”. In fretta dimentichiamo la strada tortuosa, la nausea e la stanchezza e cominciamo a scherzare coi ragazzi. Marco e Simone inizialmente rompono il ghiaccio perdendosi in gag clownesche. Alla coppia ormai rodata si unirà poi Bilal scatenando così le gelosie di Simone!
Prima dell’inizio delle attività riusciamo a sapere qualcosa di più del villaggio. La sua fondazione risale agli anni 40 ed è costituito da 2 famiglie composte ciascuna da 2 rami (totale 4 famiglie). Tuba è un villaggio che ci spiazza: la pulizia, l’utilizzo di fonti rinnovabili per la produzione dell’energia elettrica, il sistema di raccolta dell’acqua piovana, l’assenza di rifiuti sparsi a terra. Con gioia infatti assistiamo al ripristino della pala eolica, che viene riparata e rimessa in funzione dalla Comet.
Anche questa mattina abbiamo svolto attività creative dando vita a delle colombe fatte con carta e cannucce e a dei festoni creati con plastica e stoffa che sono diventati arredamento della tenda.
Ad Omar, capovillaggio che ci conosce ormai da anni, abbiamo regalato una colomba firmata da noi tutti con il messaggio, scritto in inglese e in arabo, “the choice to be here” (la scelta di essere qui).
Notiamo che i bambini/e sono più aperti e sorridenti rispetto agli anni passati, accolgono con più facilità momenti di contatto e le proposte di attività.
Nella tarda mattinata sono arrivate anche alcune ragazze di Maghayir Al Abeed.
Al ritorno da Tuba Bilal ci saluta, sappiamo che lo rivedremo presto.
Al pomeriggio ci rechiamo alla scuola di Tuwani, purtroppo oggi i bambini sono pochissimi. Dei R. non c’è praticamente nessuno, probabilmente perché oggi sono stati in piscina tutti insieme.
Alla sera piacevole sorpresa: Aisha ci invita a casa sua a mangiare una ottima pizza cucinata da lei e da delle colombe!
Mangiare insieme sul terrazzo, al buio, illuminati solamente dal cielo stellato, al riparo da ogni rumore urbano è sempre un’esperienza piacevole, intima, romantica…quasi proiettata in un altro tempo.

Scena di vita vissuta: Bilal chiama Mezze Patatina..senza i doppi sensi italiani..e mezze durante l’auanagana se ne esce con “Trapanami la patata”!!

18 luglio- mercoledi
Con gioia oggi visitiamo un villaggio nuovo per tutti noi, si tratta di Wadi Jehesh.
Ci accompagna Houssein che, in realtà, non ci è di grande aiuto in quanto in svariati momenti, più o meno delicatamente,  è stanco e si defila dal tradurre.
Rimaniamo subito colpiti dalla pulizia, dall’eleganza, dalla compostezza e radiosità delle persone che ci accolgono e della tenda nella quale veniamo accolti.
Non sappiamo se sia la normalità o si siano preparati per accoglierci.
Si respira bellezza.
Un uomo del villaggio ci racconta  che spesso subiscono attacchi da parte dei coloni del vicino insediamento, del fatto che i bambini (e comunque non sono loro) vivono nella paura, con un continuo senso di non sicurezza. Per la prima volta in questi anni viene chiesto ai bambini cosa vogliono dirci. Osserviamo come alcuni di loro si alzino, si mettano in fila e, uno alla volta, dicono al ragazzo i loro pensieri così che possa tradurli.
Le loro parole sono marchi indelebili per noi, che parlano di una infanzia negata, rubata che lascia spazio ad un mondo emozionale  e mentale che, nel rispetto dell’essere umano in quanto tale, neanche un adulto dovrebbe conoscere.
Parlano della loro paura, del senso di precario, di quanto per loro sia importante la nostra presenza lì perché permette loro di avere un supporto psicologico, gli da forza perché li fa sentire vivi, non soli, non dimenticati, gli dà energia per andare avanti a resistere, permette loro di mantenere viva la speranza.
Parole di bambini. Bambini??!!
Gli adulti ci fanno anche vedere dei video di attacchi che hanno subito.
E intanto intorno a noi si respira aria leggera, di pace, di bellezza naturale.
Come ci sta tutto questo insieme?
Mondo di opposti in cui ti rapporti nello stesso momento con la bellezza, un senso di pace e la minaccia costante, la consapevolezza che da un momento all’altro un buldozer puo’ arrivare e spazzare via una tenda, una costruzione o dei coloni possono attaccare e intanto ti gusti un dolce e speziato the alla menta tra sorrisi di speranza, gratitudine e fusione.
Anche questa è Palestina.
In questa tenda ogni persona è aperta, accogliente, disponibile.
Sia le donne che le ragazze sono ben partecipi,  sono coinvolte e si esprimono con maggiore facilità e disinvoltura rispetto ad altri posti. Pertanto iniziamo con lo spettacolo, poi le bans iniziali che vengono fatte da tutti ma proprio tutti. Berulla, con la sua dolcezza, coinvolge le 3 donne (mamme e nonne) tra i sorrisi e gli sguardi divertiti e increduli delle ragazze più giovani.
Proponiamo anche delle danze espressive e creative e delle attività di sintonia ed incontro con l’altro. La partecipazione è notevole, vi è  facilità di entrare in quanto proposto e di viverlo pienamente.
Anche i bambini, che sono pochi, si emozionano
Oggi abbiamo “tastato un po’ il terreno”,  è la prima volta che proponiamo alcune danze espressive a delle ragazze- donne arabe peraltro in presenza di uomini.
Una in particolare è una danza a due dove ci si incontra e, aprendo o chiudendo le mani che si tengono davanti al proprio viso, si puo’ scegliere se e quanto svelarsi all’altro, se si è pronti per farlo, per incontrarlo…ci si puo’ aprire o chiudere, rivelare o nascondere, aprirsi o restare nella paura.
Si, ci piacerebbe tanto fare degli incontri per loro per approfondire degli aspetti..inshallah nel futuro.
Grande successo anche per i laboratori creativi con cannucce volanti e festoni per decorare.
E’ con emozione e gratitudine e la speranza nel cuore di tornare che ci congediamo da questo villaggio.
Ci racconterà Hafez che è da un anno che sta collaborando con questo villaggio e che anche loro hanno fatto scelta di resistenza non violenta. La strada non è facile.
E’ importante, fondamentale creare rete, far sentire alla gente dei villaggi che non è sola, che insieme si puo’ resistere e cambiare.  Hafez anche con loro ha organizzato e sta facendo dei training sulla non violenza e in futuro ci sarà un incontro a settimana con il comitato.
Anche oggi al pomeriggio andiamo a scuola a Tuwani, i bambini purtroppo sono pochi.

19 luglio- giovedi
Giornata calda, siamo oltre i 40 gradi con un tasso altissimo di umidità e proprio stamattina andiamo a Susya..
Come condivideremo con Hafez  sono i giorni più caldi degli ultimi anni…
Susya sta vivendo un periodo particolare, tutte le sue abitazioni (tende e poche costruzioni  in mattone) sono sotto ordine di demolizione che è già esecutivo. Questo vuol dire che da un momento all’altro possono arrivare i buldozer israeliani e radere al suolo il villaggio.
Proprio per questo ultimamente sono state organizzate tantissime azioni locali e non solo. A livello locale vi è stata una manifestazione  non violenta con quasi  1000 persone.
Tornarci sapendo tutto questo non puo’ lasciarci indifferenti.
Anche oggi ci muoviamo da soli, quest’anno siamo molto autonomi. Jamal ci accompagna, se ne va e ci verrà a prendere.
Per la prima volta sembra proprio che nessuno ci stia aspettando, a tal punto che chiamiamo Hafez affinchè in arabo possa spiegarsi con il signore che ci è venuto incontro.
Non ci sarà la possibilità di ascoltare la storia e i cambiamenti del villaggio.
La prima parte della mattinata la trascorriamo sotto una tenda ventilata (per ora meglio del previsto) con una ventina di bambini facendo lo spettacolo e poi dei giochi.
Per la seconda parte ci viene chiesto di andare alla scuola che si trova a 15 minuti di cammino circa sotto un gran solleone.
E qui è come ci ricordavamo…l’attività viene fatta all’aperto sotto il sole cocente, lontano dalla piccola nuova tenda allestita fuori dalla scuola, che ospita anche alcuni uomini impegnati.
Il paracadute mette gioia e scompiglio.. come resistere al richiamo di sgargianti colori svolazzanti. Non si può! Il gioco libero passa velocemente è già ora di andare. Tornando al pullman non ci tratteniamo nel  intonare ritmi conosciuti inserendo le parole : “ Susya forever!” - “Susya exist and resist!”.
Il pomeriggio scorre tra chiacchiere all’albero, visita al gate e al Kiffa’s Open Space (museum e shop). Gli animi iniziano ad essere malinconici..sarà la nostra ultima notte qui.
Ceniamo con Abdeed, un amico delle colombe, di Hebron che ci offre un buonissimo piatto tipico: riso, pollo, yogurt e succo di mele.
Vista la situazione delicata ad Al Mufaqarah le colombe ci danno con gioia il permesso di andare a dormire al villaggio. Simone e Giulia sono gli “eletti”, Paola e Marzia scelgono di restare con  Marco e Federica che non stanno bene.

L’ultima notte a Tuwani prima dell’inizio del Ramadan.
Marzia e Paola si godono l’ultimo cielo di Tuwani …che per circa un’ora, grazie all’assenza improvvisa di corrente, ci riporta alle emozioni di due anni fa quando ancora qui non vi era la corrente elettrica.
E come ai vecchi tempi, durante la notte ci troviamo accanto a noi Hafez con il quale condividiamo, nuovamente in un clima intimo tipico delle nostre nottate di Tuwani, pensieri, emozioni e foto.
E’ attraverso le foto e i nostri racconti che gli presentiamo Bilal,la sua storia, i suoi cambiamenti, la sua violenza e rabbia e la voglia di cambiare. Stiamo creando un ponte, sapendo che quando sarà il momento ci sarà un incontro reale tra loro.
Ed è in questa notte in cui si parla tanto anche di cambiamenti, del coraggio di saper morire per rinascere che Hafez ci racconta la storia dell’aquila:
l’aquila può vivere fino a 70 anni…ma per raggiungere questa meta verso i 40 anni deve scegliere di autodistruggersi il becco  e gli artigli….restare in  attesa che questi rinascano, completino la trasformazione e le permettano così di continuare a vivere…
questo racconto diventa per noi simbolo sia  di situazioni decisamente collegate alla Palestina sia di situazioni di vita personale: morte dell’ego per avere rinascita, distruzione consapevole e dolorosa di schemi di vita per poter incontrare il nuovo e una  rinnovata vita, opportunità che ognuno di noi ha di fare scelte che portano dal “vecchio al nuovo”, il passare da scelte violente a non violente, la capacità e il coraggio di seguire il proprio sentire (l’aquila  non sa..l’aquila sente) per trovarsi e rinascere, il decostruirsi per costruirsi.

Nel frattempo per Giulia e Simone l’emozione è forte, anche questo è il valore del nostro essere qui. Mentre ci prepariamo ci sentiamo come fossimo proiettati verso una azione non violenta. Siamo consapevoli che dormiremo in una tenda sotto ordine di demolizione, senza confort, senza conoscere la lingua, senza nessuna colomba. Sentiamo un po’ di paura. Ed è questa la nostra azione, andare oltre le difficoltà per dare spazio alla vicinanza, all’umanità. Una volta arrivati sotto la tenda i pensieri svaniscono, dopo il “tè moment”, le colombe ci salutano e inizia la magia. Simone fa da collante tra uomini, donne e piccini, e inizia un esilarante gioco dei mimi. Alcuni di loro sono ipnotizzati davanti la tv, ma quando Simone mima in modo clown “un parto” gli occhi e i sorrisi sono tutti per lui!!
Ad un tratto senza preavviso scatta la corrente (presumibilmente hanno spento il generatore). Alcuni si sistemano per dormire, mentre i bambini e una signora rimangono svegli. Non sappiamo cosa fare. Così alterniamo momenti di gioco a lunghi silenzi per cercare di capire. Ad un tratto ci arriva il segnale che ci indica dove coricarci. I bambini sono molto stimolati, così cerchiamo di rallentare e tranquillizzarci assieme, ma Nail, anche da sotto le coperte, interrompe il silenzio della notte, chiedendoci: “Giulia/Simon, What’s your name?”; per poi scoppiare a ridere.
Il vento forte ci accarezza il viso per tutta la notte, porta via le tensioni e ci scompiglia i sogni, che vengono interrotti alle 3, con i sobri festeggiamenti per l’inizio del ramadan. Gli adulti mangiano in un angolo della tenda come da tradizione, visto che all’alba inizierà il loro digiuno. Quando noi ci svegliamo tutti ancora dormono, pure il sole. Ci sentiamo un po’ degli angeli custodi, poiché proprio stamattina sono attese le ruspe per la demolizione. Una ragazza ci chiama nella sua “casa” , vuole un po’ di compagnia mentre accudisce un piccolo bagaglietto (bambino). Dopo poco ci dileguiamo e in assoluto silenzio, rimaniamo soli; ci godiamo l’alba che colora di rosa le aride colline del deserto, e ci porta in ascolto profondo con noi stessi. Piano piano i bambini si svegliano e tra sorrisi ci offrono la colazione che facciamo insieme a loro. Simone passa a salutare un gruppetto di giovani uomini e sperimenta un dialogo giocoso ma profondo, senza l’uso della parola. Inizia poi il passaggio di ruspe e camionette che ci fa sospirare..ma non girano verso di noi, sono dirette alla vicina colonia di Alvgai (quella dell’azione con i palloncini).
Non appena arrivano due splendide colombe vengono subito chiamate da un pastore che verrà arrestato per il fatto di aver portato al pascolo il suo gregge nella sua terra, troppo vicino alla colonia.
Il cammino per tornare a At-twani è malinconico quanto basta. Arrivati a casa è il tempo dei saluti..tanti abbracci! Ciao at-Tuwani!

 NB: Per Marco questo giorno sarà memorabile. Sarà difficile rivivere una giornata di febbre a 39° con crampi addominali e nausea chiuso in una stanza senza aria con 40 gradi e 400 mosche secondo la questura (4000 secondo gli organizzatori).

20 luglio - venerdì
Torniamo a Betlemme, al nostro ostello di fiducia dove ci dedichiamo ad una giornata di igiene fisica e mentale: docce, lavatrici, relax, condivisioni, ascolto.
Concludiamo con una cena in ostello in compagnia di Bilal e successivamente Paola e Simone con Bilal si sono recati nei pressi della Natività per un buon Lemon Mint in compagnia di alcuni ragazzi italiani che hanno condiviso con noi la settimana all’Aida Camp Giovanni, Riccardo ed Elisa.
Rivedersi dopo alcuni giorni fa piacere, sentire i loro racconti e vedere anche un loro approccio diverso ci fa riflettere .Rimaniamo felicemente stupiti dalla voglia che ha Giovanni di andare a conoscere la realtà di Tuwani e di vedere da vicino cosa lì fanno le Colombe.
Qualcosa si muove!

21 luglio – sabato
Arriviamo nel cuore di Hebron e aspettiamo Issa Amro, leader del movimento Youth Against Settlement di Hebron e Shuhada  Street, molto attivo nella zona della città vecchia. 
Issa fa anche parte del Coordinamento dei Comitati popolari per la resistenza nonviolenta palestinese, infatti è in stretto contatto con Hafez. 
Il service ci lascia vicino un crocevia di strade molto trafficate e affollate di gente che si affaccia sul mercato. Ci guardiamo attorno e non possiamo non notare alcuni grossi blocchi di cemento che chiudono l’accesso ad una via laterale, ed in fondo il check point per accedere a Shuhada  Street.
Su alcuni di questi blocchi troviamo una scritta che vediamo per la prima volta e che qui ad Hebron incontreremo ancora: Free Israel.
Un altro punto di vista che suscita pensieri, considerazioni differenti in ognuno di noi.
…..Free Palestine e Free Israel…

Ad Hebron vivono circa 200.000 persone, è la città più grande della Palestina, nel centro sorgono cinque insediamenti israeliani con una popolazione di 600 persone protette da un presidio di circa 4000 soldati israeliani (si, è proprio così..un tale investimento di soldati per “difendere” i coloni…Una domanda tra tante…quale costo ha questa occupazione??).
Questo è un caso particolare, che tristemente distingue questa città, poiché di solito i piani di sviluppo, anche quelli più estremisti, hanno sempre cercato di evitare lo sviluppo di insediamenti ebraici nel vero e proprio centro urbano.
Dopo la strage del 1994, quando un integralista israeliano aprì il fuoco sui palestinesi che pregavano nella moschea, una grossa parte del centro città è stato chiuso, formalmente per la sicurezza dei musulmani…
Da allora questa area viene chiamata dai palestinesi “ghost town”.
Non appena attraversiamo il check point effettivamente ci sembra di essere in un vecchio set cinematografico abbandonato: strade deserte, porte e finestre sbarrate, soldati agli angoli delle strade.
 Vivono in questa area 50.000 palestinesi che sono sottoposti ad uno strettissimo controllo dell’esercito israeliano. Qui vige un regime di controlli obbligatori e permessi per accedere ai servizi, alle abitazioni rimaste nella zona H2* ( vedere allegato!).
Per esempio ai palestinesi non è consentito circolare con le auto e in alcune strade non possono passare neanche a piedi (pena 3 mesi di carcere); di conseguenza le famiglie che abitano in queste strade hanno dovuto trovare altri sistemi per poter accedere alle loro case, passando attraverso tetti e giardini. Per non parlare della mancanza dell’acqua che non può essere fornita nemmeno tramite le autocisterne, della difficoltà di ricevere soccorsi medici in quanto, per ricevere assistenza, devono essere forniti permessi speciali da parte della polizia, dell’esercito…servono ben 5 permessi (con relative telefonate) che, come si puo’ immaginare, hanno tempi dilazionati che poco si incontrano con situazioni di emergenza…è facile morire qui.

Siamo condotti da Issa verso il centro “Y.A.S.”, ma veniamo subito bloccati da un giovane militare che non ci vuol far passare.
Issa ci racconta, con una calma ammirevole, che ha salvato nel cellulare la cartina dei metri che può percorrere. Ha il divieto di avvicinarsi alle case dei coloni e spesso i soldati provano a chiudere l’accesso a certi passaggi. Anche se potremmo fare una strada alternativa aspettiamo per mezzora circa il permesso per fare 20 metri!!!!!
Siamo a pochi metri da una casa di coloni che è dirimpettaia ad una casa araba completamente circondata da grate poiché continuamente sotto attacco di parole e oggetti da parte dei “vicini di casa”. Su Youtube sono visibili dei video proprio inerenti a questa casa.

Ottenuto finalmente l’ok da un soldato bambino che si muoveva tra Issa e il telefono per avere a sua volta il permesso con fare difficoltoso, impacciato, quasi spaventato, entriamo nel sentiero per il quale Issa si era impuntato. Ed è lungo questo cammino che   Issa, sempre con modi pacifici sposta un tronco segnato con la stella di david, messo di traverso per bloccare il passaggio.

Ci rendiamo presto conto che la città vecchia è un labirinto di strette e tortuose strade e sentieri,che si diramano in una collina tra vecchie case di pietra con i tetti piani, torrette dei soldati, e case rimesse a nuovo..tutto avvolto da tanto filo spinato, reti, ringhiere! Spesso i coloni gettano rifiuti, sassi o altro.
Proprio in questo passaggio, costeggiamo una casa dove vediamo con i nostri occhi i resti dell’attacco avvenuto alcuni giorni prima con 10 bottiglie di vetro.
Issa ci racconta che quando ci sono disordini l’esercito blocca l’accesso dal check point o emana una specie di coprifuoco, in nome della sicurezza degli ebrei.
Dal 2001 al 2003 sono stati dichiarati ufficialmente 375 giorni di coprifuoco. Se a questi aggiungiamo anche quelli non dichiarati si riesce ad avere una misura della forte mancanza di libertà.
Passiamo velocemente al centro per poi  proseguire il giro nella città fantasma e poi nella old city. 
Issa ci dà appuntamento dall’altra parte della strada, lui non ha la possibilità di passare lungo Shuhada  Street e ci regala la possibilità di vedere con i nostri occhi e di sentire cosa vuol dire vivere  una città fantasma.
 Lungo il nostro percorso incontriamo soldati e coloni. Le nostre emozioni sono forti,  cerchiamo di andare oltre e di provare comunque ad interagire anche solo con un sorriso e con un saluto, a volte più che distacco avvertiamo una sorta di profonda paura da parte loro.
Per sbaglio e per curiosità entriamo in un luogo dove ci sono solo ebrei…solo dopo capiremo che è  un insediamento. Ci ritroviamo in un cortile circondati da bambini con la kippa che giocano allegramente.
Nel campo da basket veniamo accolti con la solita battuta: “ Siete italiani? 4-0 per la spagna!”..anche il calcio può essere uno sport capace di avvicinare persone cosi diverse
.Ci fermiamo a guardarli, osserviamo i loro movimenti a volte rigidi a volte molto sciolti.. Lo sguardo in questa terra può fare tanto, può permetterci di entrare in contatto anche molto profondo con la quotidianità e le usanze della gente.
Il fatto di essere internazionali ci dà la possibilità di avvicinarci, non dico per comprendere, ma almeno per conoscere più da vicino certe realtà. D’altra parte siamo consapevoli del fatto che se i ragazzi ci vedessero in compagnia di Issa o di qualche arabo non sarebbero cosi disponibili e aperti nei nostri confronti. Più volte abbiamo avuto modo di notare atteggiamenti assai differenti a seconda del nostro essere soli o con qualcuno….suscitando così nell’altro idee diverse su di noi.
L’umanità del pregiudizio ci accomuna .
E di fatto accade proprio questo salutiamo i bambini che ora ci sorridono divertiti, ma saranno gli stessi che più tardi ci tireranno della terra insultandoci e sputandoci addosso, perché ci vedono in compagnia di bambini palestinesi.
Anche nei vicoli del suq arabo si possono notare reti poste sopra la strada per evitare che i rifiuti e le pietre, ordinariamente gettati dai coloni, cadano nel mercato.
Siamo quasi arrivati al centro, nel cuore della ghost town, quando incontriamo un numeroso gruppo di turisti accompagnati da alcuni coloni, che avvertono di stare attenti perché siamo persone pericolose. Issa in modo pacato e gentile saluta tutti: “Welcome to Palestine. Where you come from?”. Sentiamo con piacere che alcuni di loro dicono ad alta voce che sembriamo simpatici più che pericolosi!
Non c’è la stessa reazione, subito dopo, quando passa un colono che imbraccia un mitra al braccio destro e accompagna la mano di suo figlio con il braccio sinistro.
Con loro la moglie che guarda anche noi con delle smorfie e con fare schifato. (impossibile non pensare a quanto le cose cambino a seconda delle idee che ci facciamo…siamo sempre noi…eppure suscitiamo reazioni così diverse anche dalle stesse persone)
Issa saluta il colono e nascono delle battute tra loro che si concludono con il colono che mettendo ancor di più in mostra il fucile, risponde che quello è l’unico mezzo di contrattazione con uno come lui e “per ucciderti se mi dai fastidio”; Issa con dignità non cede alla provocazione e gli risponde: “non penso che sia bello che tuo figlio ti veda ammazzare un uomo!”
Rimaniamo in silenzio e accompagniamo con lo sguardo la famiglia dei coloni. Il padre dopo aver ascoltato le parole di Issa ha preso in braccio suo figlio e si è allontanato dal centro. Arma e figlio seguono lo stesso passo.
In queste ore passate a Hebron ci capiterà spesso di vedere passare i coloni armati, gruppi di soldati non curanti rispetto i palestinesi. Tante armi e pochi sorrisi. Ingenuamente chiediamo ad Issa: “ma chi protegge voi?” “Dio” è la sua risposta.
Durante il pomeriggio vediamo dei video su Hebron (si possono trovare su youtube) e Giulia fa una lunga chiacchierata con una giovane ragazza del centro di 19 anni sul velo, sull’essere donna in Palestina.
Issa ci racconta che il centro ha avuto 9 attacchi_sia dai soldati che dai coloni ma che “nessuno ha visto nulla” anche se c’è un controllo militare 24h su 24… tra l’altro ultimamente, proprio mentre lui era in Italia, hanno bruciato il divano che si trovava all’esterno e distrutto e piante (ora sostituite).
Passiamo la notte al centro, al secondo piano.
Di fronte a noi una situazione surreale…
a due metri una rete indica il confine
sulla sinistra una casa araba così vicina eppure così lontana in quanto non è possibile per noi e per i palestinesi fare quei cinque metri che ci separano…per raggiungerla occorre fare un lungo cammino…
 sulla destra una casa di coloni con giardino, bimbi che giocano e soldati armati che fanno la guardia.
In pochi metri realtà così diverse e così comunicanti, in pochi metri terra palestinese, israeliana e terra di mezzo…
Notiamo che i soldati sono sempre in stretto contatto telefonico forse con la centrale generale. E’ evidente che segnalano ogni nostro movimento, qui e camminando per questa zona di Hebron.
Paura…difesa…fragilità…il dato oggettivo è che la sola presenza di anche uno di noi fa moltiplicare le telefonate e il numero dei soldati…
E’ notte.
Marzia è sull’atrio di fronte a questo spazio surreale.
All’improvviso dalla casa dei coloni escono tanti soldati…almeno 15. uno in fila all’altro possano proprio lì di fronte, in questa terra di mezzo.
Sono tanti 15 soldati che camminano, occupano tempo, spazio..qualche incontro di occhi …brividi e pensieri notturni..vulnerabilità, incertezza…il non  senso di quanto sta accadendo e il sapere che tutto puo’ accadere…situazione occasionale per noi, momento ordinario per chi vive qui…
Dopo pochi minuti eccoli tornare, di nuovo in fila, un dietro l’altro.
Cosa hanno fatto? Che scopo ha avuto questa uscita?
Non è finita. Dopo poco tornano, tutti. Sono truccati con righe scure sul volto…e di nuovo eccoli passare in fila uno per uno…torneranno anche questa volta dopo un breve tempo…l’effetto è forte…
Condividendo questa uscita il giorno dopo con un ragazzo del centro dice che a volte è solo terrorismo psicologico, a volte escono per attaccare e disturbare…qui non è dato sapere cosa e quando le cose possono avvenire.
Tra l’altro, proprio per questo, al loro centro c’è sempre qualcuno. Una eventuale assenza potrebbe comportare l’occupazione dello stabile.

Scena di vita vissuta:
Guardando una giovane donna con un vestito nero e il velo bianco Simone pensa di aver incontrato una suora nel bel mezzo del cento di Hebron e comincia ad urlare indicando la suddetta “sister-sister”. Trovandosi davanti all’espressione confusa dei ragazzi del centro Pally spiega a Simone che si trattava di una donna musulmana! Figura di m!

*Hebron History Lesson
                                     
Nel 1929  dopo un illustre passato come fiorente centro commerciale, Hebron visse una violenta rivolta nazionalista araba contro ciò che loro ritenevano una invasione sionista. Furono uccisi 67 ebrei  (con 135 feriti); venne razziato il mercato cittadino, sia per la parte araba che per quella ebraica e avvenne la quasi totale distruzione del quartiere ebraico pluricentenario. Le poche famiglie ebraiche rimaste furono evacuate dalle forze britanniche, il cui mandato rimase fino al 1948. Gli ebrei ricordano questa pagina drammatica come il “Massacro di Hebron del 1929”
Nel 1967, al termine della guerra dei sei giorni , Israele si impossessa con l’uso della forza in tutta la Cisgiordania, anche in zone in cui l'ingresso agli ebrei era stato proibito dal 1948.
Nel 1968  un gruppo di ebrei che si fingevano turisti, guidati dal rabbino Moshe Levinger, occupò il principale hotel di Hebron rifiutando di lasciarlo. In seguito occuparono una base militare abbandonata fondando l'insediamento di Kiryat Arba,
Nel 1979 la moglie di Levinger, nata negli Stati Uniti, guidò un gruppo di trenta donne ad occupare l'edificio abbandonato che fino al pogrom del 1929 aveva contenuto l'ospedale Beit Hadassah nel pieno centro di Hebron. Anche se queste azioni costituivano una violazione della legge israeliana, e anche se venne fondata la colonia di Kiryat Arba  per allontanare i coloni dal centro, ottennero l'approvazione del governo israeliano e l’appoggio da parte dell'esercito.
Il 26 febbraio 1994   Durante il ramadan, un colono israeliano ebreo, medico ed ex ufficiale dell'esercito,  superò in uniforme i controlli davanti alla moschea dei Patriarchi (dove l'esercito israeliano presidia l'ingresso con sufficienza) e, giunto alle spalle dei fedeli in preghiera, cominciò a sparare. Nei territori occupati è esplosa la rabbia dei palestinesi. Sassi, fuoco, altri morti. Alla fine della giornata il bilancio è di oltre 60 vittime, di cui 29 nella moschea con più di 200 feriti. Questo eccidio drammatico è ricordato come il “Massacro di Baruch Goldstein”, che i coloni fanatici celebrano ogni anno.
Nel 1997 la città è stata per questo divisa in due zone: Hebron 1 e 2. H2  è circa il 20% della città, sotto controllo militare dell'esercito israeliano. (Parte che comprende la tomba dei patriarchi e alcune aree della old city). H1 è invece sotto il controllo dell'Autorità Palestinese, in accordo con il cosiddetto Protocollo di Hebron. Con il protocollo è stata imposta ed accettata da entrambe le parti, una presenza internazionale, non armata, denominata T.I.P.H. (Temporary International Presence in Hebron), che presiedono il centro storico.
Nel 1999 hanno evacuato e chiusa Shuhada street.

22 luglio- domenica
Poiché Issa ci ha chiesto se siamo interessati a fare un po’ di attività con dei bambini del luogo, decidiamo di dividerci come gruppo.
Paola, Marco e Marzia, dopo un giro alla Moschea e alla tomba dei Patriarchi, si ritrovano ad interagire con un gruppo di bambini coloni .L’incontro avviene piano piano: dopo una prima  diffidenza i bambini si avvicinano, ci squadrano ma poi il naso clown riduce le distanze aprendo le porte ad una forma di comunicazione. Sorrisi, curiosità e voglia di interagire .I bambini si buttano a toccare il naso rosso , a toccare con mano il simbolo dell’umanità che traspare dai nostri occhi.
Quante cose noi grandi abbiamo da imparare dai bambini!!Il non pregiudizio, la voglia di toccare, di provare , di buttarsi , di sperimentare, di lanciarsi nelle cose in cui credono, la voglia di risolvere i conflitti con un sorriso e una stretta di mano.. Tornare bambini pur essendo adulti questo è forse la vera risoluzione di tanti problemi ..tornare a vedere il mondo con gli occhi da bambino..
Intanto Giulia, Federica e Simone restano a giocare con dei bambini del centro e raggiungono Betlemme solo nel pomeriggio, dopo aver visitato anche loro la moschea.
E’ emozionante sostituire una lezione d’inglese con una lezione clown “doc”.Tutti seduti con un grande direttore d’orchestra Simone pronto a farli entrare in questa nuova realtà
G., F. S. camminando per Hebron riconoscono dai gilet beidge alcuni attivisti CPT (Christian Pacemaker Team), Alcuni di loro li abbiamo incontrati al festival di Al Mufaqarah. A causa dei diffusi atti di violenza e vandalismo, ci raccontano che diversi gruppi internazionali di peacekeeping sorvegliano l’area e stilano rapporti sugli abusi perpetrati dai soldati israeliani e dai coloni estremisti e ultraortodossi ebrei. Come le nostre stimate colombe.
Alla sera condividiamo la cena con Bilal e Giovanni in un locale di Betlemme.
Un buon narghilè chiude la nostra serata.

23 luglio – lunedì
E’ un giorno di partenza  e di arrivo. Accompagniamo Federica a Tantour per prendere lo sherut che la porterà all’aereoporto.C’è silenzio tra di noi, una parte di lei ci accompagnerà durante il resto del viaggio. Sentiamo che non è un addio, ma un arrivederci e questo lo sentiamo vibrare forte riguardando il Murales all’Aida Camp. Ci stringiamo tutti insieme davanti alla colomba…è bello sapere che nessuno ha mia toccato il nostro murales!
Lungo la strada di ritorno incontriamo i soldati palestinesi che ci chiedono di fare della fotografie con loro.Sono molto insistenti e non è sempre semplice e fluido il nostro voler farci fotografare con loro e soprattutto con le loro amiche Armi. In certi momenti ci sentiamo un po’ dei trofei di cui potersi vantare.
Un po’ “inquietante” il momento in cui un soldato poggia sulla spalla e il petto di Marzia la propria arma..in un attimo mille sensazioni che spaziano tra il sentirne la potenza, la barriera, la freddezza del metallo, la forza e il senso di potere, il gioco che ne puo’ nascere, la sensualità, la leggerezza con cui possono essere maneggiate..strumento di potere, di morte, di terrore, di autorità e compagnia.
In seguito ci muoviamo per Birzeit, vicino a Ramallah dove saremo ospiti del Patriarcato Latino per circa una settimana.
Qui l’accoglienza del prete conosciuto per caso durante il viaggio di dicembre è eccellente.
Ci mostra le stanze con tanto di letto e bagno rigorosamente divise per maschi e femmine…regola che infrangeremo fin dalla prima sera.
Breve meeting con il prete per definire le attività dei prossimi giorni e poi cena insieme.
Intanto aspettiamo l’arrivo di Marco, Morbillo, che ci raggiunge per questa ultima settimana di viaggio in questa terra.
Ed è magico il momento in cui lo vediamo arrivare..ancora uniti come l’anno scorso!

24 luglio – martedì – 29 luglio – domenica (prima parte)
La settimana a Birzeit ci vede fare attività al mattino con dei ragazzi adolescenti con i quali svolgiamo un brevissimo progetto di circo sociale. Alterniamo momenti di giochi cooperativi a momenti di clownerie, acrobatica e giocoleria.
L’idea iniziale è di creare insieme uno spettacolo, ma vedendo che i ragazzi non sono sempre gli stessi e non sono neanche così scuri di volersi esibire decidiamo di “abbassare il tiro” e dividiamo il gruppo in due sottogruppi: uno che si occuperà di fare delle figure di acrobatica e uno che con Marco e Simone  preparerà uno sketch di giocoleria con clownerie.
L’esibizione viene fatta il sabato presso un centro diurno per anziani dove, oltre a quanto prepariamo insieme, vi saranno anche alcuni momenti di dabqa e di canto.
Il nostro amico abuma Louis (il prete) ci chiede anche di fare il bis la domenica dopo la messa presso il teatro della chiesa.
Non eravamo pronti a questo, e tra l’altro manca il ragazzo che faceva lo show con Marco e Simone…come sempre l’improvvisazione regna sovrana…
Breve esibizione di Marco, Marco e Simone in una difficile performance durante la quale un pubblico non abituato parla, interrompe e qualcuno si alza e saluto il don. Imperterriti riescono ad andare avanti ottenendo applausi.
Con i ragazzi si crea un bel clima, un passaggio di messaggi e valori e attività che va oltre quanto insieme facciamo. Ce ne rendiamo bene conto quando la domenica loro ci invitano a pranzare con loro, insistendo di offrirci il pranzo, presso un locale del luogo dove di solito loro si incontrano.
Qui si mangia pizza, si ascolta musica, si balla sui divani e sui tavoli, si lasciano tracce di noi con firme e messaggi sui muri del locale…siamo nel loro mondo…accolti nella loro quotidianità…ragazzi palestinesi così differenti dai tanti coetanei incontrati fino ad ora…qui si profuma aria occidentale, si osservano movenze ed espressioni così simili ai ragazzi che incontriamo a scuola in Italia.
Al pomeriggio svolgiamo attività con alcune insegnanti, tutte donne.
Il lavoro con loro avviene prevalentemente attraverso il gioco e la danza. Si tratta di un mini corso su se stessi, che passa dal fare esperienza di alcuni giochi per poterne comprendere il senso, avere degli spunti sul proprio agire nella vita e su come poterli utilizzare, al toccare emozioni e accoglienza attraverso il contatto, l’incontro e la danza.
I temi di cui abbiamo fatto esperienza sono stati la fiducia verso se stessi e gli altri, la nostra relazione nel gruppo, l’incontro con noi stessi, con gli altri, la capacità e il coraggio di scegliere, di ascoltare quando si è pronti a mostrarsi e quando no, del danzare la passione del tango nel suo avvicinarsi e allontanarsi, nel rispetto del proprio e altrui spazio e con la forza del chiedere, il riconoscimento del valore dell’altro, il contatto  con sé e con gli altri e l’ascolto.
Abbiamo osato in questi incontri poiché abbiamo sentito che si era pronti per farlo. Le insegnanti sono rimaste entusiaste, hanno toccato cose nuove, ci hanno chiesto di tornare e detto più volte “you give me peace and love”.
Ad alcuni incontri ha partecipato anche Bilal, il quale ci è venuto a trovare e con il quale abbiamo condiviso una bella serata di cui stiamo per scrivere.
Il periodo qui a Birzeit ci ha permesso di conoscere una parte di Palestina che non avevamo mai considerato, una terra in cui quasi non si percepisce l’occupazione, in cui si dorme in casa, non si incontrano soldati, non si rischia di essere attaccati e, spesso, vi è anche l’acqua.
La vita scorre abbastanza tranquilla in case pulite e sicure.
Anche il nostro poter dormire in un letto, mangiare ad un tavolo in abbondanza, poterci lavare e avere i ventilatori ci fa incontrare il nostro “sentici borghesi” e riflettere sui nostri pregiudizi sulla Palestina…anche questa è Palestina!così distante da quella incontrata fino ad ora ma così reale!
E’ stato molto bello conoscere la realtà araba cristiana in un territorio dominato dai musulmani.
Vedere le donne e le ragazze senza velo, libere di muoversi e di esprimersi in questo contesto ci ha permesso di entrare maggiormente in profondità in certe relazioni.
Il rapporto con il prete che ci accoglie facendoci sentire a casa e che, nello stesso tempo, in alcuni momenti ci fa sentire “sequestrati”, come si mancasse l’aria…dal condividere i pasti, al gelato serale…alle chiacchierate a tavola…ad una rigidità di regole cattoliche, alle preghiere ai pasti dapprima ci crea “fastidio” per poi diventare spunto di riflessione e di accoglienza a nostra volta, di volontà di conoscere e stare nel diverso da noi.
Uno di questi giorni è venuto a trovarci Hafez, emozionante incontrarlo qui, un posto neutro rispetto a Tuwani. Qui a Ramallah lui lavora  e quindi ecco buona l’occasione per trascorre un poco di tempo insieme.
Ad Hafez presentiamo i ragazzi del Circo Palestinese (seguono informazioni) che non conosceva, anche questo è il senso del nostro essere qui..creare ponti ed essere strumento, essere/fare rete.
Ci emozioniamo e sogniamo quando vediamo che lui e Nuur, uno dei ragazzi, si scambiano il numero di telefono per poter restare in contatto.

24 luglio – martedì – 29 luglio – domenica (seconda parte)
La mattina del 29 alcuni di noi partecipano alla messa, ci piace osservare come il prete, essendo presenti noi e anche un altro gruppo di italiani, reciti alcune parti nella nostra lingua, compresi dei canti. Tra questi vogliamo ricordare Fratello Sole e Sorella Luna.
Emozionante la lettura del Vangelo cantata!
I dirimpettai del patriarcato latino sono i ragazzi del Circo Palestinese. E’ un onore avere la possibilità di stare con loro e di comprendere meglio il valore del circo Palestinese in questa terra. Un pomeriggio decidiamo di andare a trovarli per conoscere meglio questa realtà. Veniamo accolti da uno dei trainer, Nawif, che ci fa vedere le sale dove si allenano i ragazzi e ci racconta dei progetti di cui si occupa e dello spettacolo appena realizzato quest’estate con i trainer internazionali Dimitri e Lido in giro per la West Bank.
Il circo fondato nel 2006 da un palestinese Shadi e da una belga Jessica ha come finalità quella di utilizzare il circo come strumento di resistenza non violenta.
Attualmente è composto da 14 persone, 5 trainers palestinesi ( Nour, Ahmad, Mohammad, Mohammad,, Naiwf) e il resto di persone che si occupano della parte amministrativa.
“La possibilità di scegliere di cambiarsi e cambiare  le circostanze della vita è qualcosa di reale e fattibile. Il circo rappresenta per me la mia vita, il mio cambiamento e la voglia di credere di nuovo in un futuro migliore e di poterlo regalare a chi non ce l’ha o a chi non ci crede più. Invece che andare a tirare le pietre i bambini di Jenin potrebbero usare le pietre per giocolare, per esprimere le proprie emozioni e per far sentire la propria voglia di esserci ma in maniera diversa.”( queste sono le parole di Nawif il responsabile dei trainer del circo mobile”. Queste parole sono brividi per noi.
Ci raggiunge successivamente Jessica che ci spiega anche dei progetti che il circo propone in giro per la West Bank ( Ramallah e nei campi di Ramallah, Jenin, Beir Zeit, Hebron, e tra Neblus e Jenin ( Farah).Nelle città di Jenin e Ramallah il circo palestinese si occupa dell’aspetto sociale lavorando con 2 gruppi : uno per i bambini e uno per gli adulti.
Ci racconta che il Circo Palestinese ha a disposizione due spettacoli: “Behind the Wall “ che portano in giro per il mondo per far conoscere le condizioni in cui vive la gente palestinese e la voglia di reagire e di vivere contro questa ingiustizia e uno spettacolo che parla di sogni, indirizzata ai bambini e a chi nel suo piccolo ha smesso di sognare.
E’ una bellissima emozione incontrare i due trainers Ahmad e Mohammad che hanno partecipato al  meeting che si è tenuto a Siena a gennaio sul Circo Sociale e sapere che Mohammad è riuscito a studiare a Torino al circo di Vertigo.Sentiamo forte e comune l’aspetto del sociale e sappiamo di condividere con loro qualcosa di grande e profondo anche se i nostri continenti sono lontani.
Decidiamo di invitare i ragazzi ai nostri incontri con le maestre e con grande sorpresa ci ritroviamo Nuour, Ahmad e Mohammad che si alternano ogni giorno e che fanno di tutto per non mancare ai nostri appuntamenti.
Cosi le nostre serate si allietano in compagnia dei nostri amici e mano mano riusciamo ad entrare e a conoscere meglio le motivazioni che hanno spinto questi ragazzi a scegliere di intraprendere questa strada.
Il 26 luglio abbiamo la possibilità di conoscere meglio Nour e insieme con Bilal andiamo a Ramallah .
Bilal stanotte dormirà da Nour e vediamo in lui il crescere di un forte interesse per il circo e per tutte le attività che i ragazzi del circo svolgono. Queste occasioni di scambio sono sempre tanto importanti per noi e per la nostra crescita personale. Si parla di Israeliani, di insediamenti, di coloni e Nour ci offre il suo punto di vista a riguardo. E’ consapevole che tutti i bambini del mondo siano uguali, ma nonostante ciò la realtà , quella reale di questa terra, porta a prendere delle posizioni. E’ per questo motivo che Nour boicotta qualsiasi forma di dialogo, comunicazione e collaborazione con la parte israeliana. Rimaniamo un po’ interdetti, nonostante il circo possa essere un ottimo strumento di condivisione ci rendiamo conto che per chi abita e ha vissuto realtà come Jenin o Nablus, sia molto difficile riuscire a guardare oltre certi muri. Sentiamo nelle sue parole le ferite e i dispiaceri di una vita sofferta e non facile. Nour quando parla è sempre molto determinato e tranquillo, con quel suo tono comunque pacifico esprime la sua posizione. Nei suoi occhi calmi e felici si vede quanto il circo sa stato un’ottima opportunità di svolta e di crescita
Ci racconta della sua infanzia adolescenza comune a tanti bambini di Jenin (da cui lui arriva) che hanno come luogo di vita la strada, con nulla da fare, e qui sperimentano la violenza, la rabbia e ogni cosa che la strada comporta tenuto conto anche della situazione di oppressione, colonizzazione presente in questa terra.
Accenna a qualcosa del suo passato e di come il circo gli abbia permesso di trasformare tutta quella rabbia in forza creativa, nella volontà di fare qualcosa di costruttivo e di come gi abbia permesso di esprimere creando e di scoprire nuove realtà. Di distruggere per creare.
Ha cambiato se stesso,.
E così, ci racconta, ha iniziato a cambiare le cose intorno a sé.
Per questo, ci dice,  “il circo per me è la vita”.
Nour ha 22 anni. Qui si cresce in fretta.
In giro per Ramallah notiamo come le persone si sentano libere di esprimere il loro essere palestinese. Una città senza insediamenti, senza oppressioni…si sente lo spirito palestinese in ogni angolo della città.
Il 27 luglio siamo spettatori del workshop realizzato dai ragazzi del circo sulle tecniche di mimo e tecniche di scomposizione realizzato da Nada , insegnante di teatro canadese. Ci piace vedere i ragazzi all’opera e vogliosi di mettersi in gioco. La sera ceniamo tutti insieme sotto la tenda posizionata sul tetto della casa dei ragazzi con una buona pasta cucinata da Marco e Giulia.
Momenti di piacevole e allegra condivisione e canti….Pally insegna Bella ciao a Nour e scrive una parte del testo su una grande foto di Nuur che è appesa alla parete.
Si tratta di una gigantrografia della sua faccia, a fianco della quale ce ne sono altre due di ragazzi circensi, che appartengono all’iniziativa “face to face”: una serie di gigantografie di facce buffe (leggermente caricaturizzate) che si trovano anche appese sul muro di Betlemme e che hanno lo scopo di mostrare l’unità tra gli uomini, chiunque essi siano.
E’ tardi e siamo ancora tutti in tenda…impossibile rinunciare all’invito di restare tutti qui insieme a dormire. Ognuno trova il suo nido e si fa abbracciare dalla notte e dalla magica atmosfera. Tutti svegli per il muezzin…ad accompagnarci la danza delle zanzare..ma sarà comunque una nottata indimenticabile!
Altra piacevolissima sorpresa condivisa è l’elezione di Bilal come capo di Aida Camp. La sua voglia di cambiare il mondo, i suoi sogni che incominciano a volare lontano e la sua trasformazione sono i più bei frutti di cui possiamo godere , attingere e da cui possiamo imparare tanto.
Solo pensare a lui a Masara, al lancio di quella pietra che ancora sentiamo dentro. Una pietra che ha distrutto tutti i nostri pregiudizi, le nostre fragili certezze, i nostri bisogni quotidiani, le nostre realtà cosi diverse .. La pietra della decostruzione ci ha fatto abbattere tutti i muri che abbiamo costruito  dentro per liberarci di quella rabbia che ci ha dato la forza per ricostruire un nuovo cammino.
E Bilal fa parte di questo cammino. Ammiriamo in lui la sua voglia di riscattarsi da se stesso, la voglia di ricominciare e di guidare la sua gente verso un nuovo futuro, fatto di sogni e non di rami, di speranza e non di pietre.
E’ consapevole dell’enormi difficoltà che dovrà incontrare e chiede anche consigli a Simone e Marco sul da farsi. Ha paura, ma nella sua paura trova la sua forza ed energia per lottare anche per chi non ha più fiato per farlo. Bilal un osso duro: un vero e proprio check point.
Il 29 è tempo di congedarci da Birzeit e ci spostiamo a Gerusalemme per trascorrere lì una notte prima della prossima tappa.
Percorriamo la panoramica strada palestinese e ci confrontiamo con il noto checkpoint di Qalandia. Qui si passa uno ad uno, possono essere fatte domande e viene preso nota di chi passa.
I checkpoint e le dinamiche che si creano, le attese, l’aria che si respira ci porta spesso a rivolgere il pensiero ai nostri checkpoint interiori piuttosto che a cosa possa significare fare questo tutti i giorni…magari con un orario da dover rispettare…ad ognuno di noi i propri pensieri…
In Gerusalemme Paola, Marco e Marco indossano il naso rosso e colorano le vie della Gerusalemme vecchia. È uno spettacolo per loro, per chi li incontra e per chi li osserva.
Entrano nei negozi, giocano con fantasiose corde e bolle lungo le strade invitando i passanti a fare altrettanto, si trasformano in manichini parlanti che propongono vantaggiose vendite delle magliette da loro indossate, inseguono clownescamente i passanti…nessuno escluso…dagli arabi, agli ebrei, ai soldati e polizia…
Si alternano sorrisi, stupore, passanti che stanno al gioco e altri che tentano di non cadere nelle trappola di gioia che propongono. E’ strano vedere bambini coloni terrorizzati camminare o meglio correre tra le vie di Gerusalemme e colone che invece ci regalano dei sorrisi.Quanto può fare paur un naso rosso!
 Alla fine la polizia israeliana ci invita ad andare nella parte ebraica dicendoci che la parte araba non è molto sicura.
Saliamo sui tetti ad ammirare la città, non ci va proprio di essere intimiditi e oppressi da certi pregiudizi.
In seguito cogliamo l’occasione per una indimenticabile serata da condividere tra di noi osservando il via vai di israeliani che nonostante la nostra presenza continuano nel loro movimento indifferente ad andare avanti senza girarsi mai.
In tarda serata ci raggiunge Ahmad e via a Big Big Buddha e  Ninja insieme a lui.

30 luglio – lunedi – 31 luglio martedi
Questi due giorni ci vedono a Neve Shalom, ospiti della nostra amica Neriya e della sua famiglia.
Qui il posto è magico, immerso nel verde, degno del suo nome “oasi della pace”.
Paola e Marzia sono qui per la seconda volta, vi ritrovano la poesia dell’ambiente e il calore della famiglia. Essendo per loro un posto speciale, è emozionante potervi tornare con gli altri amici del gruppo.
Pranzo con la famiglia e poi si fanno circa due ore di attività con un piccolo gruppo di bambini tutti maschi e tutti ebrei.
Dopo aver provato a fare dei giochi più o meno strutturati, visto che i bambini sono abbastanza agitati (oltre che piccoli) scegliamo di destrutturare tutto e di prendere ispirazione da loro, diamo così vita a tigri e leoni che si incontrano nel parco talvolta con fare amichevole talvolta con fare minaccioso. Ad un certo punto oltre ai felini anche le scimmie fanno la loro comparsa!
E’ bello ritrovare il maestro Ori che ci abbraccia e ci riconosce. Si riparla della bellezza di questo posto, della vera e concreta possibilità di convivenza tra arabi ed israeliani in una terra martoriata e cosi fragile. E’ bello per la prima volta non pensare che non sia solo un sogno ma una pura realtà.
Quando i bambini se ne vanno, restiamo tra noi a fare acrobatica per noi e scopriamo che Neriya ha una notevole agilità.
Non puo’ che seguire il gioco dell’anno Ninja dove Neriya, new entry, tiene testa con onore.
La serata ha un sapore romantico, magico che davvero non puo’ essere reso da una semplice descrizione. La passeggiata attraverso la foresta al tramonto in un posto quasi fuori dalla realtà ci riempie di serenità.
Mangiamo sul terrazzo a lume di candela con l’intera famiglia per poi essere incantati dalla chitarra di Marco e di Bob (papà di Neriya), dalle loro voci profonde, dalle loro canzoni e dalla meravigliosa voce di Neriya.
Tutti siamo colpiti da questa famiglia, dalla complicità di un incontro tra un papà che suona e canta accompagnato dalla voce delle due figlie femmine…
Scende la notte….
Il giorno dopo facciamo un giro per il paese e ci fermiamo un po’ nello spazio dedicato al silenzio dove, come ampiamente scritto in precedenti condivisioni, vi è una zona di ulivi, un cimitero dove vi è anche la tomba del fondatore del villaggio con tanto di panchine per osservare il panorama, un edificio privo di simboli religiosi dove ognuno può pregare in base al proprio credo.
E oggi un nuovo congedo, è difficile salutare Marco, Morbillo, che sta per tornare in Italia.
La separazione del gruppo è difficile. Tutto quanto è stato condiviso ci ha unito molto…e la separazione risulta dolorosa.
Dopo la sua partenza andiamo a Giaffa per concludere la giornata al mare…si, un momento di riposo e relax per noi..tra l’altro in piena terra di Israele.
Ci facciamo coccolare dall’acqua che è davvero calda! Momenti di condivisione tra un ninja e tuffi con capriole che volgono al termine…passeggiata lungo mare e tramonto sul mare…nuovo bagno per alcuni di noi che giocano con le onde …. e poi è tempo dell’ultima cena insieme, di un narghilè condiviso sul terrazzo dell’ostello, di una ultima e un po’ sofferta condivisione.
Le luci si spengono……tanto si sta per chiudere…il ritorno a casa con tutto quello che comporta è nei pensieri di tutti noi…relazione con noi, con chi eravamo prima e cosa saremo ora, relazioni tra noi, come riprendere il proprio posto con una grande trasformazione in atto…la Palestina cambia…e non si puo’ fare finta di niente.
Ma questo fa parte di un diario che qui ora non puo’ essere scritto…il tempo e l’ascolto ne permetteranno l’emersione, la manifestazione in tutte le sue nuove forme.

1 agosto – mercoledi
Breve giro per la città prima di partire alla volta di Ben Gurion.
In un attimo il cerchio si chiude, ultimi abbracci che portano con sé un mese di vita pienamente vissuta insieme…e Marco, Simone e Giulia spariscono dagli occhi di Marzia e Paola che, con occhi lucidi, si trovano ora in due.
Sappiamo che stasera ci sarà un grande evento a Muffagara, Hafez ci ha chiesto di partecipare, ma sentiamo di non potercela fare.
Tempo per noi. Bisogno di un ambiente familiare.
Torniamo a Gerusalemme, nel nostro ostello New Palm …casa si, ma solo fino a pochi giorni fa erano con altri compagni…
Chiacchiere, condivisione, doccia, sonno, emozioni, sogni, progetti….quello che due donne possono comunicare e condividere tra parole, sguardi e abbracci è davvero tanto e potente…un rapporto saldo, forte sempre più, con la capacità di sostenersi, ascoltarsi, spronarsi e rispettarsi.
Cena nel quartiere cristiano e narghilè sulle scala di Damasco Gate…casa, tradizione e anche un po’ un ricercare nella vita “un brivido che vola via”.

2 agosto - giovedi
Non riuscendo ad ottenere risposte per un luogo dove dovremmo andare, decidiamo di trasferirci a Betlemme dal nostro amico Bilal. Lasceremo i nostri bagagli al centro Aida e dormiremo da lui a Gerusalemme.
Sarà la nostra base per spostamenti vicini.
Giornata turistica tra le vie della Gerusalemme vecchia, passeggiata sulle mura e visita delle città di David.
Alla sera cena con Bilal e sua mamma con i  quali condividiamo riso e pollo, zucchine con una buonissima salsa di pomodoro e insalata araba. E’ la prima volta che mangiamo in questa casa, ci sentiamo accolte e grate di condividere questa cena di fine Ramadam.
Passiamo poi a salutare Naja, una leader del campo, punto di riferimento delle donne durante l’Intifada e ora grande spallA di Bilal nella gestione del centro Amal.
Insieme a Bilal ora è leader del campo Aida. In lei sentiamo una grande forza, lei bella , sorridente e forte ben si riconosce il suo ruolo e più volte dice con dolce determinazione “i fight for our rights” (io combatto per i nostri diritti).
Con lei si pongono anche le basi per una lavoro futuro solo con le donne. Ci ha viste lavorare con i bambini e ne è rimasta incantata, ce lo dice più volte.
Per noi il lavoro con le donne è uno dei  sogni e un sentire che rincorriamo da tempo. I tempi sono maturi. Abbiamo iniziato a Birzeit e continueremo con Betlemme.
Qualcosa di forte ormai ci unisce. Sempre più ci sentiamo parte attiva di questa terra e di questa gente.
Con Bilal condividiamo oggi una promessa: il giorno in cui saprà che il muro sta per essere abbattuto ce lo dirà e noi, ovunque saremo, prenderemo il primo aereo per venire a distruggere il muro in quel di Betlemme. E Bilal ci aspetterà. Tre dita incrociate, unico sguardo, grande promessa, meravigliosa amicizia.
Tra una chiacchiera e l’altra si torna a parlare di polizia e di oppressione. Sentire questo stato di soffocamento in questa terra è qualcosa di quotidiano e noi non riusciamo ad abituarci facilmente.
Bilal ci parla delle torture che la polizia israeliana esercita sui prigionieri palestinesi.
Torture che solo a scriverle ci piange il cuore. Uomini a cui non è concesso di sedersi , ma che passano 35 giorni legati con delle catene attaccate al soffitto senza mangiare e bere, uomini  costretti a fare la pipì in dei sacchi di yuta e poi lo stesso sacco gli viene messo in testa per giorni interi nauseandosi della loro stessa pipì, uomini costretti a stare in una cella 1X1 e a mangiare i loro stessi escrementi  in quanto nessuno gli dà  da mangiare.
Gli occhi di Bilal si fermano e anche i nostri respiri.
Gli chiediamo come si possa sentire e pensare un uomo in quei casi, quanto la pazzia faccia da sovrana in quelle situazioni .Lui ci dice che proprio questo è quello a cui  aspirano gli israeliani, ma che nonostante tutto, lo spirito di sopravvivenza è l’unica forza che guida questi uomini nella speranza di uscire presto dal carcere. Il pensiero costante per i palestinesi è  quello di resistere evitando di  parlare,  di rimanere il più possibile coerenti con i propri fratelli e con la propria terra. E’ duro essere uomini.
Bilal ci racconta della sua scelta di rimanere referente del centro di Amal e non del campo per non cedere ai ricatti del partito e per dedicarsi ad un attivismo pacifico.
E’ intenzionato a lavorare solo per il futuro dei bambini che crede essere la vera risorsa per il futuro di Aida e della Palestina. Tra le sue idee progetta di portare i bambini a Tuwani per il prossimo summer camp, per far conoscere altre realtà di resistenza. Ci commuove quando ci dice che vuole incontrare Hafez. E’ un cerchio che si chiude, i muri si trasformano in ponti…le mani si fondono insieme.

3 agosto - venerdi
UNA BRECCIA NEL MURO.
E’ cosi che vogliamo iniziare questa condivisione.
Un sogno che si realizza dopo 3 anni di missione…i muri che si trasformano in ponti.
La mattina sveglia presto abbiamo appuntamento a Ramallah con Nour per andare sul mar Morto.
Oggi è venerdi e finalmente dopo 10 anni il Check point di Betlemme è stato aperto per permettere ai palestinesi dai 40 anni in su di recarsi a Gerusalemme e di pregare alla Moschea.
Facciamo il check point e rimaniamo stupiti : la fila per entrare a Gerusalemme è infinita.
La gente è in festa ognuno con Misbah ( tipo rosario) e il proprio tappettino pronti a varcare le porte al di là del muro. E’ emozionante e nello stesso tempo ci si stringe il cuore, i palestinesi provengono da qualsiasi luogo, c’è chi ha fatto km e km nei service (taxi collettivi) solo per vivere un giorno speciale dopo 10 anni. Si sente un nuovo respiro intorno. Passando dall’altra parte del muro ( Betlemme side) ci accorgiamo che il muro è leggermente aperto. Ci sono i militari di guardia,ma la curiosità ci spinge a vedere oltre. C’è una piccola fessura aperta, uno spiraglio, una breccia pronta a far respirare un cuore malato …Anche se l’area è super mega sorvegliata si sente la vita in mezzo a quello strato di cemento. Anche il graffito della mano acquista un nuovo significato: 5 dita che si aprono quasi a creare una nuova strada. Pensando alla promessa fatta con Bilal sul muro, sentiamo crescere nuove possibilità e una nuova speranza.
Veniamo richiamate all’ordine da Bilal che ci chiede di velocizzare il passo. La fila delle donne e uomini anche se ben definite sono interminabili. E lungo le strade una moltitudine di service strapieni di gente..la Palestina è tutta qui!Che meravigliosa sensazione di libertà, la sentiamo e la condividiamo con questo popolo anche se solo per un giorno.
Abbiamo un po’ di difficoltà a riempire il service per il Mar Morto.Qui la regola è cosi , non si parte fino a quando il numero dei componenti del service non arriva a 7: quindi non ci sono orari, bisogna armarsi di tanta pazienza e speranza. Ma dopo 20 minuti capiamo che al massimo saremo in 4 ( noi e Nour) quindi decidiamo di pagare di più ma di partire. E via verso nuovi posti da scoprire.
Come al solito ci vengono i capelli bianchi quando vediamo le geste eroiche dei driver dei service.Qui si supera con semaforo rosso, lungo la striscia continua e necessariamente in curva. Ogni volta che saliamo su un service ci scappano sempre un po’ di urla , di shuai shuai (piano piano) e di gesti frenetici per sperare di intimorire un po’ i guidatori. La risposta di tutti è questa: Non ti preoccupare sono un bravo guidatore. Anche i nostri stomaci ormai si stanno adattando a questo tagadà di vibrazioni.
Aspettiamo Nour lungo la strada ad uno di quei punti dove come al solito non c’è nulla, ma c’è tutto. Siamo in piena zona C :il paesaggio si alterna tra wadi e piccoli villaggi di beduini che si trovano ai pendii di insediamenti. Scorgiamo torrette ovunque, questo continuo stato di oppressione e di controllo continua ad accompagnarci. Arriviamo a Kalia Beach, parlarvi di confini qui è come parlare dell’origine del mondo. Non ci sono check point quindi questa terra è palestinese a tutti gli effetti, ma ben presto scopriamo che tutto il mar morto, precisamente la parte delle spiagge è sotto controllo degli israeliani. Vedere sventolare bandiere israeliane sulle spiagge e il via vai di soldati in spiaggia sempre pronti a dare il loro contributo anche sotto il sole cocente avvalora ahimè questi dubbi.
Come è strano parlare e cercare di capire dov’è il confine dell’uno e dove è il confine dell’altro. Anche se esistono cartine, strade ben definite, sappiamo che qui la legge non viene rispettata. Nonostante questa sia la Palestina ogni legge può essere calpestata, gli israeliani possono entrare ed uscire come vogliono: il diritto alla libertà di esistere, esprimersi , avere e sentire una propria terra è veramente un’utopia.
Ci godiamo la giornata al mare: nuotate a pancia all’insù e spargimento di fango su tutto il corpo.
Davanti a noi la Giordania e Wadi Rum.
Lo stabilimento è marcato da una linea di confine e sarà proprio questo confine ad aprire nuovi orizzonti. Paola si avvicina nuotando in maniera clownesca verso il limite .Li incontra Michael, ragazzo israeliano di Gerusalemme , proprietario di un ristorante. Michael gli chiede subito con chi è e che cosa ha visto di Israele.
Non è facile parlare delle bellezze di Israele e dire bugie sul gruppo con cui stai!Ma serve conoscere, serve abbattere i muri e pregiudizi , serve guardare oltre !
Cosi nasce una conversazione tra i due su Israele, sui posti visti e sulla continua presenza di militari ovunque. Paola chiede all’israeliano se ha fatto il soldato e dove. Lui gli risponde che ha dovuto farlo, Israele lo impone e che è stato a Ramallah, faceva l’autista di un generale ma che conosce tanti soldati invasati dalle armi e da questa follia di violenza a cui sono educati nel periodo di addestramento.
Follia che lui personalmente non ha mai condiviso e non condivide.
Anche lui vede nei bambini il futuro di questo paese risorsa che va coltivata e guidata verso un’educazione alla pace.
Arriva Bilal, la situazione si fa particolare. Paola è in mezzo e presenta Bilal a Michael.
Dopo i saluti tradizionali i due incominciano a parlare tra di loro sulla questione economica israeliana e su come sia gli israeliani che i palestinesi siano delle pedine in mano ai governi aridi di sentimenti, ma vogliosi solo di soldi. L’attenzione dei governi non è sulle vite delle persone ma solo sui propri interessi. Parlano cosi questi due ragazzi, occhi negli occhi, senza paura di dire come stanno le cose, senza aver paura di avere tante cose in comune che non sia solo la terra, ma i sogni.
E’ un’emozione  vedere questo filo che cresce, questi muri in mezzo all’acqua diventare ponti. Ponti di dialogo, ponti di comprensione e di ascolto profondo. Michael parla dei coloni , di tutti i disagi che hanno creato e che stanno creando e di come sia lontano per loro il concetto di pace. Una possibilità di apertura verso un dialogo di pace potrebbe avvenire solo se l’incontro tra queste persone avvenisse a Tel Aviv o in altri luoghi, lontano da terre contese.
Si parla della dannata guerra , di gente che è morta per un ideale che ormai non esiste nemmeno più.
E’ una fotografia che tocca l’anima vederli sorridere, fare proposte, sentirli come due fratelli gemelli separati dalla stessa madre.
Insieme parliamo di cambiamenti, di prospettive future, del sogno di costruire un partito tra israeliani e palestinesi insieme.
Si tocca con un mano una realtà, una realtà che è sempre stata un bellissimo sogno.
Uomini uniti, vicini nelle emozioni e nei sentimenti…uomini privi di una bandiera, senza limiti , con la stessa identità e la stessa umanità.
Sono brividi questi…in mezzo a loro Paola si sente un piccolo ponte..non è solo uno speranza ,  non un inshallah, ma it’s true! Non è un’illusione…Una piccola breccia nel muro compare all’orizzonte.. un orizzonte finalmente privo di confini e di barriere.
Una frase tra le tante che regalano speranza concreta e che è stata pronunciata da Michael “io e te siamo uomini, siamo qui e ci guardiamo occhi negli occhi e insieme possiamo cambiare il mondo.”
Si torna verso Ramallah sempre accompagnati dal nostro autista!
Eh si stamattina ci ha fatto un buon prezzo per andata e ritorno con tanto di passaggio a Gerico (fatto al volo) dicendo che sarebbe stato con noi in spiaggia…Anche questo è il clima palestinese. Un taxista mai visto prima ti accompagna, si prende il suo tempo godendosi in relax quanto la giornata gli offre, senza fretta, senza l’ingordigia di guadagnare di più facendo più viaggi. Ed ecco che allora chiede in prestito un costume, fa il bagno, si fa i fanghi e intanto si chiacchiera. Tra il serio e il non serio ci chiede con occhi pieni di luce se siamo state a Gerusalemme, certo che si gli rispondiamo, e lui, senza più quella luce, ci dice “che bello! Io non posso andarci. Ne avrei tanto desiderio!” .
Pugno allo stomaco.
Altre persone in questi giorni ci dicono la stessa cosa, con lo stesso dispiacere negli occhi.
Alla sera cena con i ragazzi del circo e Bilal e dormita sotto la tenda a Birzeit.
Avvertiamo nostalgia, strano essere qui nello stesso posto in cui abbiamo condiviso una magica serata con l’intero gruppo.
Stiamo ripercorrendo tappe già fatte tutti insieme, tutto questo non era nei nostri programmi. È come se la nuvola (così come dalle origini chiamiamo il nostro viaggio) ci stesse facendo chiudere dei cerchi, come se noi che abbiamo iniziato dovessimo assumerci ad un certo livello l’onere della chiusura, del tirare le fila, del mettere insieme dei pezzi. Accogliamo, ci sarà forse un tempo in cui questo sentire avrà una più profonda comprensione
Da lontano vediamo abuna Louis,  decidiamo di non andarlo a salutare, quella parte appartiene al nostro gruppo.

4 agosto – sabato
Dopo un’abbondante colazione-pranzo poichè essendo Ramadam in giro non potremo né mangiare né bere, partiamo noi con con Nour, Bilal e Sofia (una ragazza tedesca) alla volta di Jenin.
E’ la prima volta che andiamo verso il nord. Osserviamo il paesaggio che cambia, diventa più desertico, più sabbioso e, come avevamo già notato ieri, soprattutto nella zona di Gerico e oltre si trovano cammelli e piccoli villaggi beduini.
A Jenin ci attende un caldo umido insostenibile, davvero difficile andare in giro!
Ciononostante veniamo condotti da Nour, che è di questa città, per le strade della città vecchia, luoghi dove vi è stata l’Intifada.
Ci racconta che le strade della città vecchia erano strettissime, i soldati incontravano enorme difficoltà ad entrarvi. Per questo ve ne erano alcuni che si sacrificavano avanzando per primi e che buttavano bombe per aprire il passaggio. Le bombe potevano anche essere buttate anche dall’alto.
Entravano successivamente anche con mezzi grandi per distruggere il più possibile. Inoltre capitava che distruggessero il muro di una casa per entrarvi e poi da quella, distruggendo un ulteriore muro, passassero alla casa a fianco, spesso attigua, e così via, passando quindi di casa in casa.
Nour ci porta poi a visitare il Freedom Theatre, il centro fondato dalla mamma di Giuliano e presso il quale anche lui lavorava da anni.
Speranza per tanti, occasione di lavoro e comunque di esplorazione, conoscenza di sé, ricerca di libertà,  forma di resistenza non violenta. Questo e tanto altro è il Freedom Theatre.
Talmente tanto e talmente dirompente che l’anno scorso, una settimana prima dell’uccisione di Vittorio Arrigoni, anche Giuliano è stato ucciso.
Nour ci accompagna poi a casa di sua mamma, una bellissima donna di 40 anni. Qui regna l’accoglienza palestinese! Addirittura ci viene offerta acqua, succo e uva…ed essendo tempo di Ramadan non è cosa scontata e, comunque, ci mette un poco in imbarazzo.
Siamo soliti rispettare la cultura e le usanze e mai abbiamo bevuto e mangiato in presenza di mussulmani in tempo di Ramadan.
Tempo di tornare a casa, a Ramallah salutiamo Nour con la promessa di restare in contatto.
Si torna a Betlemme per poi andare a Bet Saur dove alla sera partecipiamo ad una breve conferenza all’AIC (Alternative Information Centre) sul tema dell’ordine di demolizione di 8 villaggi a sud si Hebron.

5 agosto – domenica
oggi partiamo alla volta di un’altra città del nord: Nablus. Saremo sole, ci faremo condurre dagli incontri che faremo.
Solita attesa per riempire il taxi e poi via si parte!
Una serie di coincidenze ci guida..sul taxi un palestinese si offre di accompagnarci al centro informazioni dove potremo prendere una cartina della città. Qui un ragazzo gentilissimo ci dà delle prime informazioni e ci chiede se vogliamo essere accompagnate gratis da un palestinese che ha vissuto 17 anni in Italia e che, se disponibile, lo farebbe con piacere. Certo che si!
Attendiamo un poco mentre intanto iniziamo a farci raccontare qualcosa su Nablus e nel frattempo arriva un ragazzo palestinese alto, biondo che sembra uscito da Uomini e Donne della De Filippi. Con fare da tronista ci vuole stupire con le parole di italiano che conosce: “come stai”, “ti amo”, “voglio incontrarti a casa mia”, “vieni a casa mia”….ci chiediamo che incontri abbia  fatto in quel di Nablus…e sappiamo per certo che, a dispetto dell’accoglienza palestinese, a casa sua non ci andremmo con tanta disinvoltura…
All’arrivo della nostra guida eccoci a camminare per le vie della città vecchia. Nablus ci affascina fin da subito. Si presenta come una cittadina viva, frizzante, ventilata, colorata molto differente da Jenin. Fin da subito ci viene voglia di tornare. Ancora di più quando, anche se per poco tempo, incontriamo volti, storie, strade e colori.
Sader, il nostro amico italo palestinese, comprende subito che non è “solo” l’aspetto turistico ad interessarci. Abbiamo poco tempo per stare qui e quindi vogliamo sfruttarlo per iniziare a percepire e sapere qualcosa sul come si vive ora qui, quale è la storia di queste vie.
Ed ecco che allora si alternano domande e racconti mentre si incontrano vie che sembrano un labirinto, un dedalo di vie fatto, come lui ci conferma, di tanti passaggi collegati tra loro tra i quali è facile nascondersi,  così come è stato in tempi passati, e anche perdersi se non li si conosce.
Ci racconta del’intifada, di come Nablus sia stata chiusa dal 2000 al 2009. la gente non poteva uscire dalla città, perdendo così lavoro, relazioni, con enorme difficoltà a reperire materie prime e  cibo che impiegava due giorni per arrivare in città. Pertanto non era conveniente importarlo sia perché rischiava di andare a male sia per i costi. L’economia era così frammentata. Vivevano pertanto solo di prodotti locali.
Ci racconta di lunghi periodi di coprifuoco (anche 24 giorni continuativi) durante i quali non si poteva uscire dalle proprie case e neanche affacciarsi. Il rischio era quello di essere uccisi dai soldati israeliani. Tante persone sono morte così, solo perché, stanche di muoversi con estrema attenzione nella propria casa, hanno per un attimo pensato di prendere una boccata d’aria alla finestra o provato a guardare il cielo.
La sua famiglia, ad esempio, dormiva in 15 persone tutte nella stessa stanza e in questa cercavano di vivere. Si sceglieva la stanza con meno finestre o quella con quelle più piccole così da evitare di essere visti dai soldati e di essere quindi uccisi. Era evidentemente pericoloso anche muoversi all’interno della propria casa.
Ci racconta di un bambino che si è avvicinato con una piccola arma giocattolo ad un soldato e della sua uccisione da parte di questo.
Ci racconta di un gruppo di resistenti che erano rimasti nascosti per giorni e giorni, mangiando e bevendo quasi nulla e di quando, per disperazione, uno di questi è uscito per trovare qualcosa da mangiare. Qualcuno lo ha visto, forse una spiata e così fu tirata una bomba nel loro nascondiglio. Morirono tutti tranne uno, ucciso un anno dopo.
E tra queste storie di morte, violenza, guerra spicca il suo sorriso, la pace che anche lui emana.e i suoi discorsi carichi di umanità e speranza.
Parla di uomini tutti uguali, della necessità di incontrarsi e andare oltre, del condividere la stessa terra, del suo piacere di poter parlare con “l’alta parte”.  Parla del dare un futuro diverso  ai bambini, dell’importanza del guardare l’essere umano e non la sua appartenenza.
Ci parla del suo dolore quando ricorda cose vissute, quando nella sua farmacia arrivano bambini  o persone di cui conosce la storia dolorosa. Un esempio è quello di un bambino di 12 anni il cui padre fu ucciso mentre lui era nella pancia della mamma.
Parliamo con lui della possibilità di fare qualcosa insieme in futuro.
E’ decisamente aperto. Anzi, è così che ci dice che il 20 ottobre ci saranno le elezioni in Cisgiordania e che lui sarà un candidato di Al Fatah. Ha buone prospettive. Ed eventualmente con il comune si potrà valutare cosa fare.
Si vedrà.
Altri semi sono stati piantati.
Ci dice che il popolo palestinese vuole la pace, che è solo un’etichetta dovuta anche alla politica di Hamas che fa credere che i palestinesi non la desiderino ma che per la maggior parte non è così. Ci racconta di quando una famiglia di coloni si era persa a Nablus e temeva il peggio, mentre le persone li hanno accolti e aiutati e dato tutte le indicazioni utili.
Ci congediamo perché lui deve andare in farmacia, ma ci rassicura dicendo che qualcun altro ci porterà a visitare il campo profughi di Balata.
Che sorpresa quando vediamo che la nostra nuova guida è il tronista!!!
Balata è uno dei 4 campi profughi di Nablus. E’ il più vecchio e il più grande, vivono 15000 persone.
Anche qui troviamo le storie di Jenin: strade strettissime, tante ancora esistenti, attaccate dai soldati come già descritto, stabili che si sviluppano in altezza con famigli numerose, manifesti di morti e ragazzi in prigione. Il clima del campo è sempre lo stesso, ci sono alcuni elementi che ritornano.
Quello che ci colpisce è il gran numero di ragazzi, sia presso un centro che visitiamo sia lungo le strade.
Tanti ci guardano con curiosità a tal punto che ci chiediamo se sono soliti vedere internazionali.
In ognuno troviamo apertura e accoglienza.
A differenza di Betlemme e del sud della Cisgiordania, in queste zone non vi sono grandi problemi nel servizio dell’acqua e dell’elettricità.
Anche qui vi sono svariati insediamenti di coloni che circondano la città e che attaccano i villaggi e i pastori, mentre non scendono in città
In città, pur essendo area A, come al solito le regole non valgono e spesso entrano i soldati. Al momento il clima è relativamente tranquillo e si vive con apparente normalità.
Ritorno a Betlemme per cena e poi ancora notte da Bilal non prima dell’abituale narghilè e di una bella condivisione insieme.



6 agosto – lunedì ULTIMA CONDIVISIONE
Stiamo percorrendo gli ultimi tratti di un lungo Cammino che ci ha messo in profondo contatto con noi stessi, con le nostre paure, con i nostri limiti, con i nostri desideri e il nostro coraggio, con cio’ che è essenziale, con la capacità e la volontà di arrivare al nocciolo, con una profonda ed inevitabile ricerca di sé. Ognuno specchio dell’altro, ognuno specchio di se stesso con tutte quelle zone che ancora non aveva visto, contattato.
Incontri.
Incontri che trasformano e regalano Vita.
Con il fare morbido, femminile, che sa stare e ascoltare, che sa accogliere e condividere, che riconosce nell’altra una profonda sorellanza, che sa contenere nel mistero profondo e che poi, come madre terra con i suoi tempi sa trasformare e riportare a vita nuova.
Cicli di vita. Mai uguali a se stessi.
Un potere che a volte spaventa.
Un potere che fa luce, dentro e fuori.
Un potere che lascia spazio alle ombre, alle difficoltà, per ascoltarle, condividerle e trasformarle.
In cosa ancora non si sa.
E allora ci permettiamo di goderci il nostro tempo, al di fuori dei ritmi che chiederebbero di essere bulimici di nuove conoscenze e di nuovi luoghi.
Stiamo.
Incontro tra noi due e le nostre anime.
E con poche altre. Scelte.
Incontro con il cuore e l’anima di Bilal.
Incontro con il cuore e l’umanità di Rami e Adel.
E’ sera e andiamo ad un incontro rivolto ad un gruppo di italiani tenuto da Parent’s Circle. Loro sono Adel, un palestinese, e Rami un israeliano.
Li abbiamo incontrati grazie al contatto che un amico italiano, Marco Z, aveva dato a Paola.
Cosa hanno in comune un palestinese e un israeliano che siedono fianco a fianco in un hotel e che si chiamano fratelli?
Hanno in comune lo stesso profondo dolore, entrambi, per mano del “nemico” hanno perso una persona cara. Un padre per Adel e una figlia per Rami.
Raccontano la loro storia, con una umanità poche volte incontrata, una storia non letta sui libri, ma vissuta sulla loro pelle, una storia che li ha resi artefici e responsabili e creatori di un profondo cambiamento, cambiare il mondo si puo’, sempre più questo Viaggio ce lo sbatte più o meno delicatamente in faccia.
Adel faceva il medico, ha salvato tante vite. Si trovava nei tempi dell’Intifada  a correre tra un posto e l’altro per donare vita, speranza.
Fino al giorno in cui si è trovato a soccorrere una persona a lui cara, il padre.
Un soldato israeliano gli aveva sparato a distanza ravvicinata.
Quando lui è arrivato ha trovato il padre in una pozza di sangue, con la testa aperta. Figlio e medico. Figlio e medico. Ha fatto il medico, ancora oggi non riesce a ricordare dettagli di cosa ha fatto.
Hanno portato il padre in ospedale, lo hanno curato..il padre è morto.
E lui si è trovato faccia a faccia con il suo grande fallimento. E con una grande rabbia.
La scelta.
La scelta più ovvia, più facile forse, più umana sarebbe stata quella della vendetta, così ci dice,
Si è ascoltato come uomo e ha sentito che una vendetta non avrebbe ridato a lui il padre e avrebbe solo comportato un inutile ciclo di odio e violenza.
Allora ha smesso di fare il medico per fare il detective, per cercare colui che aveva ucciso suo padre.
Lo ha trovato.
Lo ha consegnato alla giustizia israeliana.
In questa terra dove la legge non è uguale per tutti, se un palestinese avesse ucciso un israeliano sarebbe stato condannato all’ergastolo, la sua famiglia avrebbe dovuto lasciare la casa di Gerusalemme e questa sarebbe stata demolita.
Ma in questo caso si tratta di un israeliano che ha ucciso un palestinese. E allora la legge ha previsto due anni con la condizionale…meno di un anno e mezzo di carcere.
Racconta di avere vissuto una grande umiliazione, una nuova morte.
Da lì la scelta ulteriore.
Muoversi per un cammino verso la comprensione, la riconciliazione, il perdono e la testimonianza affinché nessuno più debba soffrire di queste cose.
L’incontro con il fondatore di Parent’s Circle e con Rami, che ora racconta la sua storia.
Comincia raccontando di quando era soldato israeliano in Siria.
Per poi arrivare a scegliere di provare a dimenticare tutto, a costruirsi una famiglia. E’ un grafico, si sposa con una donna che insegna all’università, hanno tre figli maschi e una figlia femmina. Vivono ricchi e felici in una bolla di sapone meravigliosa che si sono costruiti. Senza vedere nulla d quanto li circondava.
La figlia era frizzante, vivace, bella, faceva danza ed era chiamata da tutti la Principessa.
Una meravigliosa bolla di sapone esplosa all’improvviso quando dei palestinesi kamikaze hanno fatto un attentato con una bomba a Ben Yuda Street, nella Gerusalemme ovest (il posto dove noi due anni fa abbiamo fatto lo spettacolo “oltre il muro”, luogo scelto proprio come simbolo importante sapendo di questo attentato). E in quell’attentato morirono 5 persone, tra cui sua figlia.
Sette giorni di lutto in cui migliaia di persone sono state a casa sua per le condoglianze, ma poi è arrivato l’ottavo giorno.
E lui  si è trovato solo. Solo a fare i conti con se stesso e tante domande.
E ora? Cosa sono ora? Cosa posso fare? Nulla è più come prima. Si puo’ provare a fare finta di niente e fingere di vivere una vita normale…ma non è possibile.
La bolla è esplosa.
E di nuovo la scelta, il dolore, la rabbia.
Ed è lì che ha incontrato il fondatore di Parent’s Circle che lo ha invitato a partecipare ad un loro incontro.
Dapprima l’arrivo di israeliani che, come lui, avevano perso una persona cara per mano palestinese.
E dopo, l’incontro che gli ha cambiato la vita.
Palestinesi che soffrivano dello stesso suo dolore.
Per la prima volta nella sua vita, dice, ha incontrato un palestinese come “essere umano”.
Ne ha incontrato lo sguardo, ne ha condiviso il dolore, la rabbia, la voglia di porre fine a tutto questo.
La svolta.
Anche per lui la scelta di muoversi verso la comprensione, l’amore, la riconciliazione, il perdono, il fare conoscere ad altri che cambiare è possibile.
La consapevolezza che il sangue che scorre nelle nostre vene è dello stesso colore per entrambi, che il dolore è lo stesso per entrambi, che non è una gara  a chi soffre di più e che nulla puo’ ormai essere restituito.
Loro con 500 famiglie, di cui 250 israeliane e 250 palestinesi, hanno dato vita a progetti per portare testimonianza e nuova speranza. Semi che vengono sparsi e che saranno raccolti da chi sarà pronto.
Solo nell’incontro con l’altro, andando oltre le proprie credenze e paure è possibile incontrare l’essere umano, il suo cuore, l’essere fratelli.
E questo spiazza, questo fa si che nulla possa restare uguale a se stesso.
Hanno creato un numero di telefono, 6364, attraverso il quale un israeliano puo’ parlare con un palestinese e viceversa.
Portano testimonianza, presentandosi in coppia, nelle scuole. La maggioranza delle volte per gli studenti, sia palestinesi sia israeliani, è la prima volta che incontrano un palestinese e un israeliano insieme e che si chiamano fratelli.
Le reazioni sono assai differenti, da chi cambia la proprio vita a chi dice “peccato che anche tu non sia morto con tua figlia a Ben Yuda”,  e questo fa parte del gioco, ogni scelta comporta un prezzo da pagare.
Un’altra simbolica azione che hanno fatto è stata quella di palestinesi che sono andati a Gerusalemme all’ospedale israeliano per donare il loro sangue così come gli israeliani si sono recati all’ospedale di Ramallah (Cisgiordania) per donare il loro sangue ai palestinesi. “Il nostro sangue è dello stesso colore, le nostre lacrime sono uguali”
La famiglia di Adel poco comprende il suo cammino, mentre la famiglia di Rami lo sostiene completamente e i suoi tre figli sono refusnik, hanno scelto di non fare il servizio militare obbligatorio per tre anni, e qui in Israele è una  scelta molto molto difficile.
I figli sono referenti dell’associazione “Comandanti per la Pace” di cui fanno parte israeliani pentiti del percorso fatto come soldati e palestinesi.
E’ una serata di chiusura, un ulteriore cerchio che si chiude e che riassume e comprende le parole  guida di tutti i viaggi di questi anni e di questo ultimo in particolare: esserci, andare oltre l’indifferenza, incontro, comprensione, speranza, cambiamento, riconciliazione, perdono.
Scambiamo alcune parole con loro, gli lasciamo un naso rosso e ci scambiamo i recapiti, ci ringraziano per quanto facciamo ricordandoci quanto sia importante la scelta dell’esserci, di diffondere informazione e di essere contro l’indifferenza.
Ci viviamo l’ennesima emozione, una nuova conferma e risposta…questo viaggio, per vari aspetti, continua a darci segnali.
Anche il ritorno a casa ci mette di fronte a un nuovo momento difficile ed importante.
E’ l’ultima sera che dormiamo da Bilal, domani andremo a Gerusalemme per una giornata di recupero, riposo e poi si parte, si torna a casa…a casa in Italia..perchè anche qui è casa.
E cosi percorriamo per l’ultima volta la strada verso la casa di Bilal.
E’ notte:  alle nostre spalle il muro, gli ulivi davanti a noi…il profumo della terra, il bianco dei muretti a secco, la luce infinita della luna…E in questo via vai di colori ci godiamo le nostre emozioni, questa terra ci appare cosi familiare, cosi salentina ..solchi, passi, cammini..Paola e Marzia saltano uno scoglio e l’altro tenendosi mano nella mano…sensazionale questa diffusione di energia.. Sentiamo Bilal che fischia, lo fa per indirizzarci verso casa sua e ci viene incontro . Il suo “ OVUNQUE PROTEGGI ” ci ha accompagnato per tutto il viaggio. La sua ala protettiva, il suo respiro, i suoi occhi, la sua presenza, la sua anima sono stati gli ingredienti più importanti di questa profonda amicizia. Si sente l’appartenenza dell’uno verso l’altro , la fusione di ideali e di speranze.
Di strada insieme ne abbiamo fatta tanta, siamo stati testimoni di profondi cambiamenti l’uno dell’altro.
E come un meraviglioso dono stasera Bilal ci informa dell’ultima grande notizia che fa seguito alla riunione della serata.
Come già scritto lui resta capo del centro Amal di Aida, con referente Naja, la donna di cui abbiamo già scritto.
E’ confermato.
Ma il grande cambiamento è che è stato eletto il suo essere leader del Fronte  sia al campo Aida sia al campo Laza, e lo è riconosciuto all’unanimità con le sue condizioni.
Condizioni di cui qui scegliamo di non scrivere, condizioni che hanno richiesto a lui un grande cambiamento, un passaggio dalla lotta all’incontro, dalla guerra e dalla paura all’amore. Scelte che gli hanno richiesto un profondo coraggio, una notevole capacità di esporsi in una terra in cui, lo sappiamo bene, non si scherza e i rischi sono tanti.
E allora anche stasera decidiamo di sporcarci le mani e cosi nasce un nuovo graffito sul muro della sua casa. “ CAMBIA IL MONDO….NOI SIAMO CON TE”.CIP 2012. Guardare la sua felicità mentre si diverte a tradurre la frase anche in arabo ci fa stringere il cuore. Cosi il rosso diventa il colore dell’unione, dell’incontro, dell’amicizia e del divertimento…
3 mani fuse, 3 anime , 3 orizzonti, 3 speranze , 3 amici, 3 esseri umani..
Ci fermiamo a guardare il nostro capolavoro…e dall’esterno che si possono ammirare certi cambiamenti…si possono sentire come le cose si sono e si stanno trasformando..
Fumiamo il nostro ultimo narghilè…c’è molto silenzio, ognuno radica i propri pensieri dentro di sé..è l’ora di guardarsi e di vedersi dentro ,cosi cambiati cosi dannatamente fragili e forti..
E pensi a quelli specchi : a quelli specchi che hai dentro, a quelli  specchi che solo con certe persone puoi trovare, con solo certe persone puoi sentire…e in quelli specchi le persone si ritrovano, trovano quella parte  VERA di loro stessi, senza il superfluo che li gira intorno.
E’ difficile guardarsi negli occhi, difficile anche ascoltare la melodia dei nostri cuori che seguono un unico ritmo…Al di là del muro che ci circonda intorno, senti una pace dentro, senti che a volte devi partire per tornare, devi lanciarti per capire, devi soffocare per respirare, devi chiuderti per aprirti.
Si va a dormire…si vorrebbe fermare il tempo…fermare gli abbracci…ma in questo fluire si sente qualcosa di forte, un filo rosso che ci lega, una forza tra di noi che non si spegne…abbracci che sono fusione di anime, in cui in pochi attimi ci si comunica così tanto…nel silenzio, nella profondità di occhi negli occhi e mani che si incontrano…una promessa silenziosa di unione, un filo rosso che ci unisce in ogni parte del mondo possiamo essere…un amore senza confini.

Grazie Bilal rappresenti  per me un grande CHECK POINT.
Pietra, violenza, rabbia, paura, comprensione, compassione, perdono, incontro, seconda possibilità, coraggio di cambiare, sogni e prospettive, specchio dentro e fuori…Il nostro guardarci e ritrovarci cosi uguali con quella grande umanità che ci accomuna, con la stessa paura e lo stesso coraggio di aver paura!
Un viaggio che mi ha portato fuori di me, attraverso me, all’origine di me con una nuova-vecchia me. Ho trovato fuori quello che avevo e mi porto dentro.
In te ho trovato chi sono, chi ero, chi sto cercando di diventare, chi sto provando ad essere.
 …ti porterò dentro di me lungo le strade che ormai sono NOSTRE .
Ora sono in grado di attraversare qualsiasi Check point…superare ogni filo spinato…andare oltre (Pally)













Nessun commento: